Charles Stross – Equinoide – Recensione
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Quest’anno alla Italcon c’è stata la presentazione del libro Equinoide di Stross, premio Hugo 2014, sforzo congiunto di due editori tra i pilastri della narrativa fantastica italiana e cioè Elara e Delos Digital (a cui si deve l’edizione in ebook in particolare).

Stross è un autore britannico di fantascienza e horror, già edito in Italia (anche su Urania), con all’attivo la serie della “Lavanderia”, nome di un’agenzia segreta britannica che vigila su pericoli demoniaci o alieni e in particolare su orrori cosmici di matrice prettamente Lovecraftiana e in cui lavora il personaggio Bob Howard (forse omaggio al creatore di Conan il barbaro).

Equinoide è proprio una storia di questo ciclo, con il suddetto protagonista: un romanzo breve che però si può leggere serenamente anche senza aver letto altri episodi, proprio perché autonomo e slegato.

L’ambientazione è lovecraftiana: il solitario di Providence in persona è uno dei personaggi della storia, che scopriamo aver avuto un contatto – ancora giovanissimo – con un abominio antico.

La trama sviluppa una originalissima e anche affascinante interpretazione della reale natura di Shub-Niggurath, legando il suo mito alla figura degli unicorni, in una lettura molto meno fantastica e idilliaca di come normalmente queste creature sono descritte nel fantasy.

Il taglio della scrittura è molto moderno e pulp, a tratti comico o volgare, ma in definitiva è una storia con il suo fascino, anche se è necessario segnalare una componente erotica e pornografica molto forte, che sicuramente stride con lo stile di Lovecraft, ma su cui aumenta il tono ironico anche verso il celebre Maestro di Providence.

Del resto, Stross ha raccontato che l’idea per questa storia nasce da un incontro a una convention, dove un altro autore parlava con un editore dell’idea di sviluppare una antologia incentrata sul tema degli unicorni in chiave “Hentai” (un tipico genere pornografico giapponese caratterizzato anche da contaminazioni con parafilia): questa antologia non fu mai realizzata, ma Stross aveva un’idea pronta per una storia è quella idea è all’origine di questo breve romanzo…

Se l’accenno ha incuriosito voi come ha colpito me, provate a leggere questo testo, che però potrebbe deludere o meglio “scandalizzare” i lettori troppo puristi (e puritani).

Da evidenziare la splendida copertina, con illustrazione di Franco Brambilla.

https://www.amazon.it/Equinoide-Lavanderia-Robotica-Charles-Stross-ebook/dp/B071VWRJ6C

 

Recensione di “Makt Myrkranna”: la storia di Dracula a confronto con la versione Islandese.
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Avevo già parlato della versione Islandese di Dracula, Makt Myrkranna, letteralmente “I poteri delle tenebre”: un’edizione, scoperta da Hans Cornell De Roos (che ha tradotto, annotato e curato il testo inglese), che presenta molte differenze con il testo canonico del romanzo di Stoker e che, invece, presenta molti parallelismi con gli studi preparativi al romanzo stesso, come risultanti dai taccuini e appunti dello stesso Stoker.

Ho anche anticipato che recentemente un altro Studioso di Stoker ha evidenziato un precedente adattamento del romanzo in versione svedese, Mörkrets makter.

Nell’attesa di poter approfondire questa ulteriore versione, presto pubblicata tradotta in inglese, possiamo già procedere a una esegesi della versione islandese Makt myrkranna, evidenziando similitudini e differenze sia col testo originale, che con gli studi preparatori di Stoker.

ATTENZIONE: SEGUIRANNO NECESSARI SPOILER PER CHI NON AVESSE MAI LETTO NÉ IL DRACULA ORIGINALE, NÉ MAKT MYRKRANNA.

La prima rilevante differenza tra le due versioni consiste nei personaggi: in Makt Myrkranna (da ora in poi MM) sono presenti alcuni personaggi assenti in Dracula (da ora in poi D.), mentre alcuni di quelli principali portano nomi differenti: in particolare Jonathan Harker è Thomas Harker (Tómas in islandese); mentre Wilhelmina Murray, AKA Mina, è Wilma (che è una differente abbreviazione dello stesso nome, anche se in is. è Vilma); Lucy Westenra diventa Lucia Western (Lúsíu in is.) e, infine, Jack Seward diventa John. Totalmente assente è Renfield, mentre il datore di lavoro di Harker, Mr. Peter Hawkins, ha maggior spazio e un ruolo più attivo.

Il libro si apre, come sempre, con Harker in viaggio per raggiungere il Castello di D.

4 maggio: appare un pipistrello alla finestra di Harker. Potrebbe essere un’apparizione vampiresca, ma ancora nulla è dato sapere. Già però è evidente una differenza dal D. canonico, ove pipistrelli appaiono solo in una fase più avanzata, nelle scene di Whitby, Hillingham e Purfleet.

5 maggio: si presenta una scena di attacco di lupi alla carrozza di Harker molto più sviluppata che in D. Il vetturino della carrozza scende a segnare con una pila di pietre il punto in cui compare un fuoco fatuo, ove cioè potrebbe essere presente un tesoro sepolto in base alle leggende.

7 maggio: all’arrivo al Castello di D., Harker è assistito da una serva anziana e sordomuta. Sarà un personaggio ripetutamente presente, come unica inserviente, durante il soggiorno al Castello. Tale personaggio, assente in D. – ove il castello è privo sostanzialmente di personale – era elencato negli studi di Stoker preliminari al romanzo.

A pag. 87-88 abbiamo una lettera di P. Hawkins.

Pag. 91: entra un altro pipistrello, da una delle finestre che il Conte si raccomanda debbano restare sempre chiuse, specie dopo il tramonto. Immediatamente dopo abbiamo l’apparizione di una splendida dama: unica vampira che compare in questa versione, in sostituzione delle tre spose di D. notoriamente presenti nel romanzo. Personalmente ritengo che, data la costruzione della scena, la donna possa essere il pipistrello trasformato.

Questa dama è bionda, vestita di colori chiari, con al collo una collana di diamanti con un rubino al centro. D. successivamente dice che è una sua parente, pazza, che crede di essere la sua bisnonna e infatti si veste sempre come l’antenata appare in un ritratto, in cui la figura le assomiglia.

In MM viene spesso citata e descritta una galleria di ritratti al piano superiore del Castello. Vi sono figure fra loro simili, che sembrano rappresentare tratti familiari ai Dracula. In alcuni quadri compare, in epoche e fogge diverse, un personaggio che pare lo stesso D. e che potrebbe benissimo essere lui a cavallo dei secoli. Così, tutto lascia supporre che la vampira potrebbe essere proprio la stessa figura nel quadro: in questo caso, non si comprende se sia una vampira anche più antica dello stesso D.

Circa i loro rapporti di parentela, non è chiaro se la vampira sia una nipote di D., come indicato a pag. 108, o una cugina. A pag. 115 viene usato il termine frænka, che può voler dire cugina, zia o nipote: in questo caso parrebbe essere descritta come una cugina, come ribadito a pag. 117.

A pag. 117 si racconta in maniera estesa la storia della vampira. Sposata a un giovane nobile Austriaco, rimasta presto vedova, si risposò poco dopo il 1804 con un discendente della famiglia Dracula, come lei, conosciuto a Vienna. Tutto lascia presupporre che sia una moglie di D. stesso. Si sarebbe infatti trasferita a vivere col marito al Castello di D., ove poi avrebbe avuto un amante, scelto tra i bei ragazzi delle montagne. D., quasi mostrando un ripensamento, giudica il marito – che penso sia sempre lui – per come ha agito: avrebbe potuto non dare peso alla tresca, invece la gelosia e la rabbia lo accesero. Chiuse negli alloggi della moglie lei e l’amante: non per farli morire di sete o fame, cosa a cui provvedeva, nonostante avesse licenziato tutti i domestici, tranne una (la più valida e fidata, probabilmente la muta tuttora al castello). Conosceva il temperamento della donna e sapeva che si sarebbero “bruciati” da sé: infatti, dopo qualche mese, l’amante apparve a una finestra, chiedendo aiuto, dicendo che lei voleva ucciderlo. Di fatto il corpo fu trovato nell’abisso sotto il castello. Poi, dopo del tempo, la stessa dama, con indosso proprio quegli abiti rappresentati nel quadro della “antenata”, sarebbe morta.

In pratica, appare possibile che la natura vampiresca della dama abbia preso il sopravvento, fino a diventare la sposa di D., oggi intenzionata a conquistare Harker. Alimentando dicerie e paure attorno al castello, con miti che parlano di una sorta di dama bianca, fantasma, che altro non sarebbe che la vampira.

D., mentre parla, fa capire che è affascinato da Londra: città in cui la nebbia rende il giorno simile alla notte; in cui è possibile così, celati nell’ombra, indulgere in crimini che mai saranno svelati… Il richiamo è forse fatto ai reali omicidi avvenuti sul Tamigi, in cui torsi di donna erano ripescati, amputati, e di cui nell’introduzione al libro si parla. In questo contesto è simpatica anche una fugace citazione a Conan Doyle, fatta dallo stesso Conte.

10 maggio: pag. 133, la camminata da “uomo ragno” o lucertola di D. viene sostituita da una camminata felina.

Pag. 136: Harker scorge una ragazza morta tra i cespugli, vicino al castello. A pag. 151 assisterà alla ricerca della stessa da parte di alcuni villici, che poi pianteranno un trancio di ramo nel cuore della stessa.

Successivamente, errando alla scoperta del castello, Harker viene assalito da una figura lungo una buia scalinata: una forma massiccia, con braccia irsute, che cerca di morderlo al collo. Cade e perde i sensi. Quando si risveglia è solo e teme di aver sognato tutto.

Continuando a errare, arriva a una cripta, piena di lapidi e immagini primitive.

Alla fine risale fino alle stanze di D. dove trova monete di varie epoche: un tesoro da circa 14 milioni di euro al cambio attuale.

Tra pag. 159 e 167 (12-18 maggio) ecco che Harker si trova sempre più ossessionato dall’idea della vampira bionda, che lo evoca a sé e cerca di soggiogarlo.

21 maggio: verso pag. 181, Harker svela un passaggio segreto nella stanza ottagonale da cui viene normalmente raggiunto e servito dalla domestica muta. Segue un percorso che lo porta fino a una sorta di tempio sotterraneo, dove – dall’alto, da una balconata, nascosto dietro alla balaustra – assiste a una sorta di rito sacrilego. Una sala dall’ampia volta arcuata, con due larghi pilastri a sollevare il tetto, mura scavate nella roccia, con circa 150 persone all’interno. Si odono musiche di trombe e tamburi. Ci sono figure con facce animalesche, simili a quelle dei ritratti della galleria del castello: figure itteriche, con arti da scimmia. C’è un altare di pietra nera, con sopra un pilastro di marmo nero, al posto della croce. Dietro un murale, con una faccia disgustosa e orribile, perversa, su uno sfondo scuro con fiamme. Davanti alla scalinata ci sono sei bruti seduti, scimmieschi e nudi, con corpi pelosi. Harker pensa che proprio uno di loro lo abbia assalito nella scalinata, tempo prima.

Queste figure, ben presenti in MM, potrebbero essere delle sorte di vampiri meno regali, oppure quasi dei lupi mannari o berserkir: nelle prime idee di Stoker, sappiamo dai suoi appunti, l’idea di abbracciare anche i temi di licantropia e berserker era contemplata.

Il rituale è guidato da un anziano, con una cappa rossa, capelli bianchi e barba grigia, che altri non è che il Conte stesso: ragazze nude vengono trascinate sull’altare, dove, ipnotizzate da D., cessano di ribellarsi e sono aggredite, con salto ferino, dai servi irsuti, che le azzannano alla gola e succhiano loro il sangue. Sangue di cui, infine, lo stesso D. si cosparge. [Interessante come questa immagine ricordi scene del film Bram Stoker’s Dracula di Coppola!]

25 maggio: Si delinea lo scambio di lettere tra D. e varie eminenze europee, politiche, sociali e culturali. In MM il piano di D. è quello di sovvertire l’ordine mondiale, a capo di una sorta di congrega di adepti satanisti, inseriti tra i pilastri della società. In questo senso la trama, molto più del D. originale, pare rapportarsi a quanto immaginato da Kim Newmann nel suo “Anno Dracula”.

29 maggio: in MM si citano dei Tatari, quali servi di D., e zingari, anziché i soliti Szgany del romanzo canonico.

3 giugno: Harker si accorge che alcuni suoi effetti personali, compresi gli abiti da viaggio, sono spariti. Si accorge anche di un uomo, in tutto simile a lui, che va e viene dal castello, con indosso i suoi abiti. È in atto un piano per incolpare Harker di delitti e farlo sembrare ben attivo nei territori rumeni, mentre invece egli è prigioniero di D.

Seguendo gli spostamenti di questa figura, fino al 19 giugno circa, Harker individua una possibile via di fuga dal Castello, da una torre.

19 giugno: osservando i movimenti dei Tatari, Harker trova una cassa di ferro, piena di terra, in cui giace come morto D.: la scena di MM è diversa da D. canonico e in più brani, da qui a fine prima parte, in MM è ben descritto come Harker si accorga di un graduale ringiovanimento di D. Al 28 giugno, non fosse per capelli e baffi bianchi, D. dimostrerebbe appena 40 anni!

28 giugno: siamo verso la fine della prima parte del libro, la sola scritta in prima persona, in forma epistolare di diario. D. invita Harker a partire con lui il giorno seguente, ma lo invita anche ad accettare un anello in dono e indossarlo: Harker, drogato, si sveglia che ormai è passata l’ora in cui doveva partire. Capisce di essere rimasto solo, imprigionato, alla mercé della vampira a cui era promesso… Capisce che i poteri delle tenebre si sono alleati contro di lui: è uno dei due brani in cui sono espressamente indicate le parole che danno titolo a MM. Lega le lenzuola per farne una fune e fuggire… E così, in sospeso, si conclude la Prima Parte.

La seconda parte, come accennato, non ha più indicazione delle date – bensì è suddivisa in capitoli – ed è scritta in terza persona, dal classico narratore onnisciente. Inoltre i capitoli sono poco sviluppati, facendo sembrare l’intera seconda parte quasi un abbozzo di trama o un riassunto.

La scena si apre con Wilma e Lucia a Whitby, dove Lucia – sonnambula, perché il padre era “promiscuo” (sic!) – è corteggiata da Arthur Holmwood, John Seward e Quincey Morris.

Cap. 2: abbiamo l’arrivo del Demeter, il vascello deserto con il capitano legato morto al timone. In MM è assente l’apparizione di un grosso cane (D. trasformato) che si getta dalla nave a terra.

Cap. 4: viene trovato un anziano marinaio morto nel cimitero, cosa che turba le ragazze. Circa contemporaneamente, le stesse incontrano lo zio di Lucia, Zio Morton, con il Barone Székely: quest’ultimo non altri che D. Iniziano una conversazione e di notte Lucia comincia ad essere sonnambula, come se rispondesse al richiamo di qualcuno.

Il giorno dopo le ragazze incontrano ancora il Barone al cimitero, che gli racconta di usi e costumi dei Tatari arrivati in paese. In D. non abbiamo simili interazioni dirette con D. e le ragazze.

Cap. 5: Lucia e Wilma si recano proprio all’accampamento dei Tatari, che sono particolarmente ossequiosi proprio con Lucia (evidentemente già identificata come nuova promessa sposa del Padrone). In una sfera di cristallo, un’indovina mostra a Lucia il suo fidanzato Arthur che bacia una ragazza. Il giorno dopo Lucia riceve una lettera proprio di Arthur che la avvisa che sua sorella, Mary, è giunta a trovarlo la sera prima per poi ripartire per Costantinopoli. Ella si è appena sposata con un rumeno, assistente del Principe Koromezzo (Ambasciatore Austriaco a Londra). Tutti personaggi e circostanze assenti in D. Le nozze sono state fortemente osteggiate dalla famiglia Godalming, perché il principe avrebbe una pessima reputazione.

Cap. 6: Lucia, che continua a ricevere visite dal Barone/Conte, inizia a stare male. Seward contatta Van Helsing. Una cameriera viene trovata morta, nella villa dei Westenra, morsa alla gola e dissanguata. La finestra della camera di Lucia è rotta: dentro lei e la madre, sul letto, paiono morte. Invero solo sua madre è morta, di terrore. La polizia, assente in D., inizia indagini sull’omicidio, accusando i Tatari peraltro spariti il giorno dopo l’omicidio. Il giorno successivo purtroppo, nonostante trasfusioni e tentativi di cura, anche Lucia muore. Arthur viene trovato svenuto: dice che Lucia era viva e si sarebbe alzata sorridente, dalla bara, che così viene deposta aperta dentro la cripta, ove vi sia aria qualora non fosse davvero morta. Le vengono lasciate persino lenzuola e cibo.

Cap. 7: Abbiamo un personaggio che non compare né in D. che nelle notes. L’Agente Tellet, vecchio agente di polizia, che su incarico di Hawkins fa ricerche su Harker. Harker – accusato di omicidio – sarebbe stato visto vagabondare con giocolieri e frequentare Margret, figlia del locandiere di Zolyva, trovata morta vicino al castello di D. Il 15 luglio qualcuno corrispondente a Harker avrebbe prelevato molti soldi in una banca a Budapest. Wilma si reca proprio a Budapest, alla ricerca del fidanzato. In un villaggio vicino al Danubio, fra un gruppo di Tatari, vede un uomo indistinguibile da Harker e capisce dell’errore in cui tutti stanno cadendo: un altro assassino sta depistando le ricerche, facendo accusare Thomas. Tllet e Wilma partono per Bistritz, mentre il primo convoca in aiuto un vecchio collega, di nome Barrington, che li raggiunge insieme a Hawkins.

Giunti al Castello di D. Wilma crede di essere attaccata e si ferisce a una gamba: decidono di ricoverarla in un vicino convento.

A pag. 264 abbiamo una descrizione di Suor Agatha, descritta come una minuta e graziosa ragazza austriaca. La suora parla a Wilma del castello di D., abitato da una banda di banditi, il cui capo sarebbe in combutta con il Diavolo in persona. Parla anche di un malato, affetto da febbre cerebrale, che ha perso la memoria e ricoverato nel convento.

Cap. 10: Wilma comprende che il malato, che non vede, essendo bloccata a letto, è inglese e inizia un carteggio di messaggi scritti con lui. Quando sta meglio, finalmente si reca a incontrarlo di persona, scoprendo che è proprio Thomas Harker! Il giovane, in seguito, assistito dall’amata, recupera gradualmente la memoria. Poi i due si sposano, con Barrington come testimone.

Circa sette giorni che sono rientrati a casa, dopo aver nominati i giovani sposi suoi eredi universali, Hawkins muore d’infarto.

Mentre tornano a casa dal funerale, Wilma e Thomas passano accanto a una nobile carrozza, trainata da cavalli grigi, al cui interno scorgono una bella dama e il Barone Székely. Al vederlo, Thomas perde i sensi e la memoria breve dell’episodio. Wilma, sospettosa, trova e legge il diario di Thomas, ricostruendo gli eventi della prima parte del romanzo e iniziando a capire che il Barone e il Conte D. sono la stessa persona.

Ne parlano con Barrington, che cerca spiegazioni logiche, e con Van Helsing, che inizia invece a delineare il mito e la figura del vampiro, collegandolo anche a Lucia. A pag. 276 c’è un altro richiamo esplicito ai “Poteri delle tenebre” di cui al titolo MM.

Cap. 13: Barrington va a trovare Seward a Parfleet (non Purfleet come in D., con cambio di vocale): il manicomio, come noto ai lettori di D., è ubicato proprio di fronte a Carfax, la proprietà acquisita da D.

Viene notata una carrozza con cavalli grigi e uomini in uniforme: è quella che anche Harker e Wilma hanno scorto e appartiene a Madame Saint Amand, moglie dell’Ambasciatore francese, e altra figura originale di MM.

Da Carfax un domestico, la sera, porta un biglietto da visita al Dott. Seward, chiedendo l’intervento del medico da parte della padrona, la Contessa Ida Varkony, residente a Carfax. Il dottore si reca a visitare la paziente, restando sconvolto dall’apparizione: una donna bellissima, alta e magra, con capelli sottili e neri e occhi grandi e profondi. In tutto, compresa la collana caratteristica, il personaggio è identico alla vampira del castello di D., salvo avere capelli diversi (una tinta?).

La dama dice di soffrire di insonnia, convulsioni e aritmia e chiede a Seward di curarla con l’ipnosi: di fatto è lo stesso Seward a subire una sorta di incantamento e inizia a sentirsi stanco e privo di energia, come dopo le trasfusioni di Van Helsing. Per un attimo gli pare persino di vedere Lucia stesa in quel letto, al posto della dama: c’è una confusione tra i personaggi che francamente non è possibile risolvere. Scopriamo, inoltre, che la Contessa sarebbe sorella del già citato Principe Koromezzo, che vive sempre lì e che invita Seward a tornare la sera.

Cap. 14: a Carfax si svolge una festa serale. Vi partecipano Seward e Madame Saint Amand, oltre altre 40-50 persone, per lo più uomini di molti paesi: Seward pare il solo inglese.

Ecco che l’idea della cospirazione settaria di potenti in MM si rafforza.

Per ultimo arriva il padrone di casa, a cui tutti prestano onore: non è chiaro se sia D. (probabilmente lo è), ma potrebbe avere un altro alias, quale Marchese Caroman Rubiano (che non si capisce bene se è lo stesso personaggio o un altro).

Seward viene anche avvicinato da un uomo basso e tozzo, gobbo: un violinista italiano di nome Giuseppe Leonardi. La figura ricorda la sagoma scorta da Harker nella galleria di ritratti del castello.

Il Marchese si complimenta con Seward per l’ipnosi con cui ha “resuscitato” la Contessa e lo invita a partecipare a un esperimento: Seward cade in una sorta di trance, mentre le luci si spengono e sembra che un rituale prenda vita in un luogo trasfigurato (una caverna oscura come quella del Castello).

Quando si riprende, Seward viene riaccompagnato dal violinista al manicomio: l’uomo si offre di suonare per i pazienti, mentre al medico pare di sentire urla in giardino.

Nelle notes di Stoker è ipotizzata una cena conviviale, con D. quale ultimo a entrare e con un episodio di resurrezione non ben individuato né descritto.

Cap. 15: Van Helsing, Barrington, Tellet, Morris, Wilma e Thomas si alleano per fermare D.

Cap. 16 Il manicomio è nel caos: Seward non c’è e pare ci sia un estraneo a dirigerlo.

Morris si fa internare per infiltrarsi: il giorno dopo lui e Seward vengono finalmente ritrovati, deperiti e senza vestiti. Seward è impazzito. Morris è ferito alla testa. Mentre il gruppo si reca in ospedale, il manicomio è raso al suolo da un incendio di cui nessuno sa nulla.

Il gruppo si reca infine a Carfax, alla ricerca di D. L’interno ha mura dipinte come il tempio sotterraneo nel Castello di D. Purtroppo si è fatto tardi e D. giace in un sarcofago, con indosso la cappa rossa da cerimonia. Cala il tramonto e D. si sveglia, saltando addosso a Harker. Van Helsing però lo trafigge al cuore con un pugnale, uccidendolo. Il cadavere rapidamente degrada: appare come già morto da tempo e presto rimane soltanto polvere.

Cap. 17: epilogo. Circa nello stesso tempo, il Marchese Caroman Rubiano sparisce: rafforzando la mia tesi che sia un altro alias di D. Poi, Madame Saint Amand si suicida. Vari ambasciatori a Londra sono richiamati alle rispettive residenze. Seward sopravvive ancora poco, senza mai recuperare la ragione. Morris – che nel D. canonico muore, ucciso da D., durante la lotta finale sui Carpazi – si autoaccusa di aver ucciso il Conte: la polizia indaga, ma lo assolve. Non c’è nessuna traccia della Contessa o di chi altro viveva a Carfax, ove viene rinvenuto solo il tesoro milionario del Conte. I seguaci del Conte, con un finale “aperto”, che apre scenari di possibili seguiti, potrebbero restare celati da qualche parte…

In definitiva, questa è la sintesi di MM, con le maggiori differenze da D.

È evidente come la trama, specie nella seconda parte, si discosti in maniera massiccia dal romanzo originale, aprendo molti spunti a possibili sviluppi e intrecci della trama che, purtroppo, non sapremo mai (a meno che la versione Svedese non riveli nuove sorprese).

È ipotizzabile che, avendo Stoker ceduto i diritti di pubblicazione all’editore per Inghilterra e USA, lo stesso abbia poi trattato direttamente la cessione in Islanda, per lucrare maggiormente, forse cedendo una delle prime stesure del romanzo (all’epoca non era facile né rapido inviare copie, non certo via mail, e questo potrebbe aver favorito – ipotizzo – l’invio di un manoscritto di bozza già pronto).

In ogni caso ho trovato emozionante e stuzzicante la lettura di MM e suggerisco a tutti di affrontarla, anche perché è evidente come queste poche osservazioni non possano certo sostituire la completa (e complessa) lettura di un intero libro di 289 pagine, oltre appendici e note.

Dracula, dopo la versione islandese, ecco quella svedese!
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Avevo già parlato della versione Islandese di Dracula: un’edizione inizialmente pubblicata a episodi su un giornale, successivamente raccolta in volume, che presenta molte differenze con il testo canonico del romanzo di Stoker e che, invece, presenta molti parallelismi con gli studi preparativi al romanzo stesso, come risultanti dai taccuini e appunti dello stesso Stoker.

Makt Myrkranna, letteralmente “I poteri delle tenebre”, fu pubblicato in Islanda dallo scrittore ed editore Valdimar Asmundsson (anche traduttore del testo), a partire dal 13 gennaio 1900 (circa 3 anni dopo la originale pubblicazione di Dracula in Inghilterra, del 1897) sulla rivista Fjallkonan.

La scoperta delle differenze, come già accennato, era merito dello studioso Hans Cornell De Roos, fra i massimi esperti mondiali di Dracula, che ha scoperto, tradotto, annotato e curato la traduzione in inglese del testo originale islandese.

Recentemente, un altro Studioso di Stoker, lo svedese Rickard Berghorn, ha evidenziato un precedente adattamento del romanzo di Dracula, questa volta pubblicato in Svezia appunto, sempre serializzato su un giornale – il Dagen – a partire dal 1899: già lo studioso islandese Guðni Elísson aveva ipotizzato che Makt Myrkranna derivasse da una precedente versione scandinava; ebbene, la risposta, potrebbe invece congiungersi alla scoperta di questa versione svedese, dal titolo similare Mörkrets makter (letteralmente d’identico significato) e sicuramente precedente all’altra.

Attualmente, come accaduto per Makt myrkranna, è in corso una traduzione in inglese (credo sempre a cura di De Roos) di questa versione, che sarà presto pubblicata: avremo tutti modo di vedere così similitudini e differenze, sia col testo originale, che con gli studi preparatori di Stoker, che con la recente versione islandese.

Sappiamo già che alcuni dettagli restano simili ed echeggiano gli appunti di Stoker iniziali, ma dovremmo trovare una seconda parte del romanzo molto più sviluppata, in ambito svedese, rispetto a quella islandese che si presenta quasi come un riassunto mai sviluppato.

RING novello DRACULA?
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N.B. L’articolo contiene spoiler sulle trame dei romanzi di Ring e Dracula.

In anni abbastanza recenti, un vasto successo nel campo del horror è stato raggiunto dal ciclo di Ring: un fenomeno di massa nato in Giappone, inizialmente come romanzo e successivamente come fortunata serie di pellicole cinematografiche, composta di ben tre episodi, a cui sono seguiti due remake hollywoodiani – il primo del celebre Gore Verbinsky – e di cui, anzi, esce proprio oggi, nelle sale cinematografiche italiane, un terzo capitolo (con regista F. Javier Gutiérrez).

Le pellicole cinematografiche, come spesso accade, ancor più dei romanzi, hanno sancito la fortuna della storia e del suo autore a livello mondiale. Sono, infatti, ulteriormente seguite edizioni in tutto il mondo del romanzo, fino alla punta di un milione di copie vendute: in Italia il primo libro della serie, pubblicato dalla Editrice Nord (Milano, 2003) ha esaurito in un solo mese la sua prima tiratura, richiedendo una ristampa immediata.

È presto per sapere se l’incredibile successo di Ring sia soltanto un “fuoco di paglia”, un entusiasmo momentaneo destinato a essere dimenticato al più presto, oppure se resterà perpetuamente nell’immaginario horror, diventando addirittura un “classico”. Infatti, nell’arco di pochi anni l’entusiasmo iniziale per la serie si è assopito, salvo risvegliarsi anche in tempi recenti con, appunto, il progetto di un nuovo film; ciò nonostante, la serie in esame, insieme alla simile pellicola Grudge, ha sicuramente nutrito un interesse per il cinema horror nipponico che pare persistere negli anni e che una volta era sconosciuto, mentre alcune scene di the ring persistono ad apparire come “citazioni” in moltissime parodie e opere derivate, restando indelebilmente impresse nell’immaginario collettivo, almeno di genere.

Tutti gli elementi sin qui elencati potrebbero far propendere per una risposta affermativa alla domanda posta poco sopra e il fatto stesso che la storia di Ring sottenda una sottile critica – nemmeno troppo velata – al mondo della comunicazione di massa, al modello di “controllo sociale” che gli strumenti dell’informazione hanno sull’opinione pubblica, potrebbe segnare un punto di forza di tale opera dell’ingegno. I mass media hanno contribuito a diffonderne il messaggio alle masse che, per suo tramite, sono state allarmate nei confronti di quello stesso strumento da cui avevano ricevuto il primo impulso, il tutto in un circolo vizioso di “attivazione” delle coscienze che è difficile bloccare.

Il nucleo della storia ci spinge a riflettere e a ripeterci: “Stuzzicato dai mass media ho letto un libro che mi mette in guardia dal potere di controllo sulle coscienze che i mass media stessi hanno; il modo in cui tale problema mi si è rilevato è una dimostrazione della realtà e dell’efficacia di tale fenomeno.” Questo potrebbe pensare un qualsiasi lettore di Ring: il risultato finale è a tutto vantaggio del romanzo – e della sua storia – che non sarà facilmente dimenticato.

Rings

Ebbene una simile fortuna, nonché una fama tanto potente, porta a ripensare a quello che è il più grande capolavoro della letteratura gotica di tutti i tempi: Dracula di Bram Stoker.

Quest’ultima opera – all’occhio di un osservatore attento ed esperto della materia – presenta più di un punto di contatto con Ring di Koji Suzuki. Vale dunque la pena esaminare questi aspetti peculiari delle due opere, con una fondamentale premessa: si sconsiglia la lettura a chi già non conosca le due opere – la loro trama – e volesse leggerle in un futuro prossimo, perché la suspense e la integrità della narrazione ne rimarrebbero irreversibilmente lese da una serie di spoiler inevitabili.

In primo luogo si può esaminare la somiglianza tra le strutture narrative dei due romanzi: Dracula inizia con il giovane Jonathan Harker in viaggio su una carrozza; presto egli si trova catapultato – suo malgrado – in una storia tragica, ricca di morte e terrore sovrannaturale, nella quale svolgerà un ruolo non marginale. Egli è il solo a scoprire l’esistenza di un male pestilenziale capace di diffondersi su tutta la terra, personificato nella figura del conte Dracula. I personaggi di Dracula nulla potrebbero ottenere senza un lavoro di squadra, un continuo spostarsi fra luoghi e situazioni alla ricerca di ulteriori “tasselli” del misterioso “mosaico” che cercano di rivelare al mondo. Soprattutto tali personaggi sarebbero impotenti senza l’aiuto di un personaggio qualificato: un soggetto dotato di quella genialità e di quelle doti umane e intuitive necessarie per affrontare un essere demoniaco e mostruoso come il vampiro Dracula; tale è la figura di Abraham Van Helsing, medico esperto di occulto e caparbiamente ostinato a combattere il male nella sua forma incarnata.

Dettagli ulteriori di non poco momento sono l’inserimento nella trama di un fondamentale personaggio femminile e riluttante – la moglie di Harker, Nina – e la morte di uno dei personaggi della “task force” anti-vampiro, poco prima della conclusione del romanzo.

Inoltre, si può sottolineare il paragone esistente tra la fobia per il vampirismo e quella per le malattie, i virus e le pestilenze, difficili da individuare e da fermare e capaci di diffondersi a macchia d’olio ovunque (il modello dell’epoca – XIX secolo – è chiaramente la sifilide).

Vediamo ora la struttura di Ring: l’opera inizia quasi subito – non le primissime pagine, ma poco dopo – con il protagonista, Asakawa, che si trova su un taxi – la carrozza moderna potremmo dire – e che viene – come Harker – catapultato in una serie di morti e orrori sovrannaturali, quale unico conoscitore dell’esistenza di un male – anche qui – “pestilenziale” capace di diffondersi ovunque e sterminare le persone.

La metafora del virus in Ring è esplicita fin dai primi capitoli e perdura fino alla conclusione del romanzo e non solo: nel seguito della storia – il romanzo Spiral, conosciuto in Italia sempre grazie alla Editrice Nord (Milano, 2004) – si viene a sapere, senza alcun margine di dubbio, che il “male”, protagonista negativo della storia – la causa di tutte quelle morti – è proprio un virus, simile ad una mutazione del vaiolo.

Continuando coi parallelismi rispetto a Dracula, ritroviamo in Ring il lavoro di squadra di tutta una serie di personaggi, in continuo spostamento, alla ricerca di sempre maggiori informazioni che permettano di debellare il male; ed anche in Ring è necessaria la comparsa di un personaggio “qualificato”, caratterizzato da particolare caparbietà e intuito: l’amico di Asakawa, Riuji Takayama. La sua tenacia è immediatamente messa in risalto: l’uomo non teme minimamente di vedere la videocassetta “stregata o maledetta” – il veicolo di diffusione del virus ring – che porta alla morte dopo sette giorni esatti dall’istante in cui la si è guardata, bensì è entusiasta all’idea di esserne spettatore e di affrontare la lotta contro il male.

Riuji Takayama è, inoltre, un professore di Filosofia (di Logica, per la precisione) laureato anche in Medicina: insomma un medico/filosofo particolarmente intelligente, astuto ed intuitivo, proprio come Van Helsing.

Tali caratteristiche saranno altrettanto evidenti nel protagonista di Spiral, Mitsuo: egli, infatti, è un medico legale[1] che, nel corso dell’autopsia di Riuji, viene a sua volta attratto nella “lotta al male”. In Ring, poi, come in Dracula, alcune vittime innocenti sono colpite dal male – richiedendo una maggiore urgenza d’intervento al protagonista, che non deve più soltanto salvare sé stesso – e, in parallelismo evidente con Dracula, si tratta proprio della moglie e della figlia di Asakawa (Harker della situazione).

Infine, poco prima della conclusione del romanzo, anche in Ring come in Dracula, muore uno dei personaggi: si tratta di Riuji Takayama (che però si scoprirà tornare in vita nel seguito del romanzo).

All’origine del male c’è sempre un personaggio sovrannaturale che agisce dal “regno dei morti”: il vampiro è un nosferatu, un non morto; all’origine del virus ring c’è il rancore di una donna morta[2] di nome Sadako Yamamura, dotata di peculiari facoltà di preveggenza e poteri E.S.P. di vario genere.

In definitiva, si potrebbe dire che il segreto del successo di Dracula e di Ring sia la struttura comune della storia; anzi, essa potrebbe essere il segreto per scrivere romanzi horror immortali come i mostri che li popolano…

Si prenda un personaggio, trasportato da un qualche vetturino, lo si catapulti in un mondo minacciato da un male sovrannaturale di natura morbosa/patologica e lo si faccia interagire con una task force di personaggi accomunati dall’intento di debellare questo “nemico”; si inserisca un personaggio particolarmente sicuro di sé e intelligente (richiesta almeno una laurea, possibilmente in medicina); si facciano spostare i personaggi in ambienti e scenari vari alla ricerca di dettagli o informazioni utili a sconfiggere il loro avversario; si crei la minaccia per la moglie del protagonista e si faccia morire uno dei personaggi principali poco prima della conclusione; ricordarsi di far aleggiare un’ombra di panico e terrore sul destino dell’intera umanità e “lasciar cuocere il tutto a fuoco lento”. Ecco la ricetta del romanzo horror perfetto.

Eppure, al di là delle banalità e della facile ironia, ci si potrebbe chiedere quanto Suzuki e il mondo siano coscienti del paragone evidenziato in queste pagine.

Più in generale viene da domandarsi quale sia il fascino magnetico che l’orrore da sempre esercita su di noi, attraverso le arti più varie: H.P. Lovecraft sosteneva che la paura sia il sentimento più antico e forte dell’animo umano e la paura più grande sia quella dell’ignoto[3]; certamente il solitario di Providence ha praticato con successo questa posizione, dal momento che gran parte dei suoi orrori sono privi di descrizioni precise e richiamano atavici timori sulla possibile esistenza di esseri (divinità/gods) superiori all’uomo e sconosciuti ai più.

C’è chi (si veda “La stirpe di Dracula” di Massimo Introvigne, Mondadori, 1996) sottolinea come le opere dell’orrore, creandoci paura e terrore, generino adrenalina e in generale vadano a sostituire l’assenza di quelle esperienze di caccia o sopravvivenza estrema che un tempo caratterizzavano la nostra esistenza (in quanto animali) e che il nostro evolverci (come esseri umani, ma anche come società e tecnologia) ha lentamente eclissato: nei momenti in cui ci dilettiamo spaventandoci con l’orrore, sono ripristinate importantissime funzioni basilari del nostro organismo, altrimenti non sublimabili in altre forme[4].

Personalmente ritengo che nella quotidianità si incontrino persone false e grette, materiali e maliziose; si vivano situazioni scomode (liti; omicidi; violenze; soprusi di ogni genere; etc.) e si vedano orrori terrificanti (bambini del Terzo Mondo malati e denutriti; guerre; atti di terrorismo; etc.) completamente dovuti e causati dall’uomo e che continuano a perpetuarsi esclusivamente a causa sua.

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L’idea di un male esterno o alieno, personificabile in qualcosa di non-umano e possibilmente che può essere distrutto/ucciso dall’intervento eroico di un umano, è sicuramente un pensiero più consolante e catartico del doversi confrontare con una realtà che appare invece pullulare di devianze e orrori che alcuna logica spiegazione sembrano avere all’infuori della matrice umana. Un simile elemento di auto-riflessione e di catarsi è insito nelle emozioni che l’horror e la paura ci trasmettono ed è il suo reale potenziale, nonché il suo magnifico ruolo.

Certamente una funzione così essenziale della letteratura horror è l’altro grande elemento di successo che è racchiuso in un qualsiasi romanzo del genere: per quanto riguarda Dracula e Ring non si creano dubbi in proposito. Oltretutto, tanto in Ring, quanto nel seguito, Spiral, è proposta tutta una serie di riflessioni sulla società, l’uomo e il suo destino escatologico di rilevante suggestione.

Ritornando invece agli aspetti complementari delle due storie, vorrei sottolineare ulteriormente l’importanza dei due protagonisti reciproci e principali: Harker e Asakawa. Entrambi rivestono un ruolo di spicco nell’ordito del rispettivo romanzo; la prima parte delle due opere è dedicata esclusivamente a loro.

Inoltre, sul complesso del racconto, entrambi compaiono per un periodo quantitativamente o qualitativamente maggiore, ottenendo un posto d’onore non concesso ad altri personaggi (nonostante in Ring il distacco fra le figure di Asakawa e Riuji sia meno marcato, in quanto co-protagonisti a tutti gli effetti). Entrambi, inoltre, ricompaiono nel seguito del romanzo, dove si scopre che Riuji si è alleato con Sadako Yamamura; al secondo, quindi, sembra quasi essere riservata una maggiore centralità nell’ordito complessivo della trama, come articolata su i due romanzi: Ring e Spiral. Tuttavia, Riuji è una figura negativa, di cui frequentemente sono messi in luce aspetti nefandi – come l’essere egli probabile autore di alcuni stupri – che in generale fanno essere qualitativamente preminente la figura di Asakawa, vero eroe tragico della serie.

Entrambi i romanzi, inoltre, si concludono con un lieto fine: in Dracula gli eroi hanno sconfitto il male e i coniugi Harker hanno avuto un figlio cui è attribuito il nome “Arthur”, lo stesso del personaggio morto combattendo contro Dracula, che va quasi a sostituirsi al defunto, volendo ricreare idealmente il gruppo al completo, come era all’inizio del romanzo, quasi che nessuno fosse realmente morto e il male non avesse avuto il minimo vantaggio.

In Ring la conclusione è impregnata di una “minaccia apocalittica” incombente sull’umanità, ma lascia presagire che il protagonista riuscirà a salvare la moglie e il figlio, avendo compreso “l’esorcismo” necessario a debellare la maledizione letale della videocassetta, creando quindi una sensazione di soddisfazione nel lettore, una convinzione di vittoria del bene sul male. Tale speranza è, però, smentita nel secondo romanzo della serie, in cui si appura che i due innocenti familiari del protagonista sono morti.

In generale Spiral segna un contrasto col modello classico: c’è una vittoria del male; persino Asakawa muore, mentre Riuji e Sadako si profilano come annientatori dell’umanità e futuri signori della terra – nonostante una piccola parentesi di speranza lasciata aperta per il lettore più sognatore e idealista. Tuttavia, questo è un altro problema, che non va a toccare le similitudini esistenti tra Ring e Dracula, essendo Spiral, di fatto, un romanzo autonomo, tra l’altro di minor successo rispetto al predecessore, quasi a dimostrare la validità della struttura degli altri romanzi come formula segreta del successo, che, se abbandonata, porta alla disfatta.

Ad ulteriore conferma di quest’ultimo assunto, mi preme evidenziare come successivamente l’autore nipponico sia stato quasi costretto a scrivere un terzo capitolo della sua fortunata serie: Loop (Ed. Nord, Milano, 2004), il quale riapre interamente la trama della trilogia, ripristinando un ottimismo e una positività di fondo che si era abbondantemente smarrita nel secondo capitolo della saga. Un terzo libro che, peraltro, è opinione dello scrivente, potrebbe sempre prestarsi a un ulteriore seguito…

Personalmente ritengo Dracula il massimo capolavoro letterario, non solo in ambito gotico; ho comunque trovato molto affascinante ed emozionante Ring, dovendo ammettere che Spiral è in buona parte ancor più suggestivo e accattivante del suo predecessore, ma rovinandosi nel finale che ne segna un tracollo e in definitiva lo lascia perennemente secondo (non solo cronologicamente, ma anche come “classifica”), se non addirittura terzo, dopo la pubblicazione di Loop. Quest’ultimo, tuttavia, è un romanzo di genere e ambientazione completamente diversa dai primi due: è pressoché assente l’atmosfera horror e, anzi, il romanzo si può pacificamente definire di fantascienza – e di alto livello!

Interessante è, inoltre, una comparazione tra lo stile dei due autori (Stoker e Suzuki). Dracula è indiscutibilmente un romanzo epistolare, per quanto parzialmente sui generis: nel testo si susseguono pagine di diario, lettere, articoli di quotidiani, dattiloscritti, etc. La trama si snoda, quindi, attraverso la percezione soggettiva e diretta dei protagonisti delle vicende (nonostante non sia, appunto, una prospettiva unitaria di un singolo individuo) e la cadenza delle vicende è puntualmente fissata nello spazio e nel tempo in base all’intestazione dei contributi dati dai personaggi: data, luogo, provenienza.

Ring non è, al contrario, un romanzo epistolare: ciò nonostante è scritto con l’indicazione precisa delle date e dei luoghi (persino delle ore); inoltre, sono spesso inserite le riflessioni dei personaggi in prima persona (in corsivo, nel testo stesso del racconto, riecheggiando lo stile di Stephen King), cosicché è trasmessa tutta una serie di emozioni, sensazioni e percezioni soggettive che caratterizza anche lo stile di Stoker in Dracula e rende più coinvolgente la lettura e l’immedesimazione nelle vicende.

Per concludere, non voglio affermare che le due opere siano identiche, né che Suzuki abbia imitato Stoker; sono certo che anche il lontano confronto tra le due opere potrebbe far trasalire i fanatici di una qualunque delle medesime (più probabilmente gli “elisabettiani” amanti di Dracula, mentre i fans di Ring potrebbero essere lusingati dal paragone).

Eppure sono convinto di aver notato similitudini sfuggite ai più e di aver sollevato una tematica suggestiva e intrigante: se ho fortuna potrei aver colto il segreto del successo immortale di un’opera, almeno dell’orrore, individuando la ricetta del “perfetto” romanzo horror, come un sommelier che ne intuisca gli ingredienti gustandone i sapori.

Sapori d’alta cucina, nel caso di Stoker, ricca di tradizione, ma che cede sempre il desiderio all’assaggio di nuovi intriganti proposte, come quelle dal gusto orientale di Suzuki.

[1] Pare che sempre più spesso nella letteratura moderna si stia comprendendo la funzionalità di un personaggio che sia medico legale: egli è uno dei primi soggetti che viene attratto nell’orbita di un crimine (una figura qualificata, che redige un referto e che partecipa ad indagini e processi); è in genere una figura “colta” e anche rispetto a realtà occulte e paranormali può rivestire ruoli importantissimi. Si pensi a Van Helsing o al dottor Victor Frankenstein (del romanzo Frankenstein di Shelly) come esempi di medici “puri”; alla nota Kay Scarpetta (di Patricia Cornwell) o alla televisiva Dana Scully di X-files – come, specificatamente, medici legali.

[2] È da evidenziarsi come anche la stessa Sadako Yamamura torni in vita nel seguito del romanzo, Spiral, quale primo esemplare di una razza mutante ermafrodita capace di auto-riprodursi e bramante la conquista del mondo intero, in sostituzione del genere umano.

[3] H.P.Lovecraft, Supernatural Horror in Literature, 1927; in it. “L’orrore soprannaturale nella letteratura”, Ed. Sugarco, 1994.

[4] Si può ribaltare la critica comunemente mossa ad un certo tipo di “violenza” – preferirei parlare di “aggressività” – generalmente mostrata da mezzi di comunicazione/intrattenimento (cinema, televisione, fumetti etc.): molto spesso un certo tipo di “aggressività” permette di liberarsi di tensioni e pulsioni innate e fortemente radicate in noi; la si potrebbe definire una “sana aggressività”, dotata di effetti taumaturgici e catartici. È molto meglio vedere un assassino in un film, e liberare le pulsioni durante la visione di una pellicola, piuttosto che essere realmente degli assassini e raggiungere punti di collasso emotivo che portino a delinquere davvero. Troppo spesso si sente di omicidi commessi in stato emotivo o passionale (condizione che, giova ricordare, non rileva penalmente come attenuante o esimente) e viene da domandarsi se davvero gli autori di quei delitti siano stati istigati dalla televisione o piuttosto avrebbero potuto liberarsi di alcune cariche negative guardandola (e sarebbe stato meglio, dunque, l’avessero fatto).

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Ramsey Campbell – L’ultima rivelazione di Gla’aki – Recensione
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L’ultima rivelazione di Gla’aki è un ottimo romanzo weird/horror che non può mancare nella biblioteca degli amanti del genere e degli appassionati dei c.d. Miti di Cthulhu di ispirazione e genesi Lovecraftiana.

Il romanzo segue la ricerca dei volumi che compongono “L’ultima rivelazione di Gla’aki”, pseudobiblium immaginario (simile ai noti Necronomicon o De vermis mysteriis a cui si ispira)  da parte di un bibliotecario. Il protagonista è una persona comune, ben caratterizzata, in cui l’immedesimazione da parte del lettore è totale e coinvolgente. Ci troviamo a vivere nei suoi panni allucinanti giorni, quasi ipnotici e onirici, in un paesino marittimo che richiama profondamente la Innsmouth di Lovecraft, sia nella descrizione, che nel clima e nella “fauna”.

Il romanzo è ricco di dettagli che lasciano presagire l’orrore che si cela dietro la realtà, che il lettore bene coglie, come piccoli sassolini lasciati a indicare la strada, beffardamente incompresi (o incomprensibili) al protagonista, per cui il senso di raccapriccio e alienazione trasmesso al lettore ne risulta amplificato. Tutto conduce al climax finale, dove l’orrore cosmico, di stampo lovecraftiano, si rivela in maniera netta e chiara, presentando un ennesimo Grande Antico, Gla’aki, che va a rimpinguarne l’elenco accanto a Cthulhu & Co.

Forse – unica critica – troppo frettoloso e tenero il finale, in cui ci troviamo lontani dal senso di follia e terrore a cui altri autori ci hanno abituato in simili contesti narrativi: Campbell è quasi dolce e paterno nel suo rapportarci a Gla’aki, lasciandoci quasi desiderare di incappare proprio in lui, se dovessimo scegliere fra i Grandi Antichi, piuttosto che in altri e più terribili suoi pari…

Il volume è corredato da due preziose appendici saggistiche a cura degli impeccabili Danilo Arrigoni e Walter Catalano, che ci introducono Campbell, la sua narrativa, la sua storia e la sua produzione (di cui troviamo anche una preziosa bibliografia italiana completa).

Libro consigliatissimo!

Dal sito di Edizioni Hypnos:

L’ultima rivelazione di Gla’aki

di Ramsey Campbell
(The Last Revelation of Gla’aki, 2013)

“La rarità vittoriana più famosa potrà pure essere un francobollo – il Penny Black –, ma è decisamente comune rispetto al libro più raro dell’epoca. È probabile che in tutto il mondo non sia rimasta neppure una copia de Le Rivelazioni di Gla’aki. […] Da allora nessuna copia è venuta alla luce, e la copia in possesso della Brichester University si trovò tra i volumi distrutti da uno studente alla fine del secolo scorso. Il libro più malefico, o una perdita per la letteratura sull’occultismo? Come il contenuto della biblioteca di Alessandria, Le Rivelazioni di Gla’aki potrebbe essere ormai leggenda.”

Glaaki : Grande Antico abitante in un lago nella valle di Severn nei pressi di Brichester, in Inghilterra. Ha l’aspetto di una gigantesca lumaca ricoperta di aculei metallici che, nonostante il loro aspetto, sono in realtà crescite organiche. Glaaki può anche estrudere tentacoli con gli occhi situati sulle punte, che gli permettono di guardare da sotto l’acqua. Si ritiene che sia venuto sulla Terra imprigionato all’interno di una meteora. Quando il meteorite si è schiantato al suolo, Glaaki è stato liberato, e l’impatto ha creato il lago dove ora risiede.

Nato a Liverpool nel 1946, Ramsey Campbell è il più importante autore horror inglese contemporaneo. Esordisce nei primi anni ’60 con racconti di stampo lovecraftiano, pubblicando nel 1964 con la Arkham House la sua prima raccolta The Inhabitant of the Lake and Less Welcome Tenants. Del 1976 è il romanzo La bambola che divorò sua madre, che lo consacrò nel mondo dell’horror. Ha all’attivo oltre trenta romanzi tra cui i più famosi La faccia che deve morire (1979), La setta (1981, da cui nel 1999 è stato tratto il film Nameless. Entità nascosta, diretto da Jaume Balaguero), Sogni neri (1983), Luna affamata (1986), e Antiche immagini (1989). L’ultima rivelazione di Gla’aki (2013) segna il suo ritorno alla mitologia lovecraftiana.

Campbell è l’autore inglese di genere che ha vinto il maggior numero di riconoscimenti: cinque World Fantasy, tredici British Fantasy, tre Bram Stoker, quattro International Horror Guild.

Laird Barron – La cerimonia – Recensione
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La cerimonia di Laird Barron, purtroppo, non mi ha entusiasmato, nonostante la profonda stima per le Edizioni Hypnos che stanno davvero meritevolmente riscoprendo il weird in Italia con un catalogo di spessore encomiabile.
La storia si sviluppa su più archi narrativi, con locations e momenti temporali differenti, che rendono un po’ spezzato il filo della trama.
Di fondo è una classica storia weird, in cui antiche presenze, culti innominabili ed esseri “alieni” di stampo Lovecraftiano, dominano il retroscena della vita dell’uomo che, sostanzialmente, può trascorrere serenamente la propria esistenza soltanto all’oscuro della reale trama che si tesse fuori dalla sua comprensione, salvo impazzire o sprofondare nell’orrore laddove riveli la verità nascosta e celata. Idea comune a questo tipo di narrativa, insomma…
Quello che però non mi ha soddisfatto è lo sviluppo dell’idea. Il romanzo in buona parte lo ho trovato noioso, incentrato su eventi privi di spessore e interesse e con una prosa non troppo coinvolgente.
Il protagonista soprattutto è il reale problema della trama, perché non permette un vero inserimento nella trama con l’immedesimazione: abbiamo una persona anziana, in cui difficilmente un lettore di media età o giovane riesce a calarsi, che però rende ancor più impossibile tale immedesimazione laddove si scopre essere un personaggio che finisce in avventure rocambolesche, con strani bravacci Messicani o Men-In-Black usciti dal peggiore episodio di X-Files. Manca cioè quella totale “normalità” e “quotidianità” della trama in cui l’orrore sovrannaturale irrompa come solo e vero elemento conturbante che è il meccanismo di sospensione dell’incredulità veramente portante in questo tipo di narrativa.
Trama – Dalla copertina:
Ci sono strane cose che sopravvivono ai margini della nostra stessa esistenza, che ci seguono al limite della nostra percezione, ci osservano dal buio che incombe oltre il calare della notte, solo un passo al di là del confortante calore delle luci. Neri portenti, strani culti, e cose anche peggiori attendono nell’ombra. I Figli dell’Antica Sanguisuga sono fra noi da tempo immemorabile, dall’alba dell’umanità ci accompagnano…
 
Donald Miller, geologo e accademico oggi ormai ottuagenario, da una vita cammina sul ciglio d’un abisso, tra i vuoti di memoria che gli oscurano la mente e certi improvvisi lampi d’inquietanti ricordi, che a tratti lo risvegliano a una realtà sinistra celata appena sotto il tenue velo d’amnesia, la sottile cortina della quotidianità. Sparsi frammenti, ora destinati a convergere verso una rivelazione sconvolgente, ciò che l’Oscurità, l’abisso oltre le stelle, ha infine per noi in serbo.
La nebulosa degli spettri – Vittorio Piccirillo – Recensione
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La nebulosa degli spettri  (Ed. Solfanelli) è il primo titolo di una saga che vanta al momento tre volumi, tutti ovviamente scritti da Piccirillo. Una saga di fantascienza d’avventura che NON può essere persa da chiunque si dichiari fan di Star Trek.

La storia segue infatti le avventure della Pattuglia Stellare, una sorta di sistema di sicurezza o polizia del cosmo, che viaggia attraverso mondi e pianeti per mantenere l’ordine nell’universo.

In questa particolare missione la Pattuglia è alle prese con dei pirati spaziali ed ecco che i ritmi tipici della space opera si fondono con temi e climi quasi Salgariani.

Con una astronave che non ha nulla da invidiare alla Enterprise – del cui equipaggio si ricalca il tenore militare e tecnico dei dialoghi – la pattuglia segue una pista per fermare i pirati, con atmosfere che vanno dai mercanti (alla Star Wars) ai pianeti meno evoluti, a combattimenti a suon di siluri e laser.

Buona la caratterizzazione dei personaggi, per lo più umanoidi dalle bizzarre caratteristiche: il Tenente Declane è il classico comandante imperturbabile; Lah’Komat – di cui il libro segue il punto di vista nella narrazione in prima persona – è un esperto navigatore e tecnico, come  Ne Ashar; Taidanosh è un nerboruto combattente, mentre Sheeda, membro femminile della truppa, è una esperta di armi.

Lo stile di Piccirillo è limpido e gradevole, facendosi leggere con piacere, senza appesantire nemmeno nelle abili scene di world building e approfondimento della scienza o dei costumi.

Un libro che piacerà sicuramente a chiunque ami la fantascienza, confermando ancora una volta la presenza di abiliti autori di questo genere nella nostra “classica” Italia.

Dalla quarta di copertina:

La nebulosa degli spettri appartiene alla “science-fiction”, genere che in passato ha riscosso un vasto consenso e che ancora oggi molti amano sebbene siano rimasti pochi autori, anche a causa della difficoltà di piazzare sul mercato – soprattutto in tempi di contrazione della proposta editoriale – questa fantascienza dai connotati vintage.
È un racconto di “space-opera”, un filone che ha avuto la sua massima espansione negli anni Trenta per poi essere ripreso e aggiornato da scrittori come Poul Anderson e Lois McMaster Bujold, e che ha ispirato kolossal cinematografici come Star Wars di George Lucas o serie televisive fortunate come Star Trek di Gene Roddenberry.
Gli ingredienti sono noti: scenari galattici caratterizzati da singolari manifestazioni di materia ed energia, in cui si muovono massicce astronavi coinvolte in spettacolari battaglie; alieni dai tratti esotici – eppure spesso più umani degli umani – che popolano vasti imperi contrapposti a potenti gilde commerciali dedite a traffici leciti e illeciti.
Nelle vicende della Pattuglia Stellare si ritrovano l’azione e le armi micidiali della Legione dello spazio di Jack Williamson, insieme all’avventura e alle invenzioni al limite del verosimile dei Lensmen di E. E. Doc Smith.
Romanzo dalle reminiscenze salgariane, seppur passate attraverso innumerevoli filtri letterari, gradevole e curato con scrupolo quasi filologico, non mancherà di divertire le vecchie e le nuove generazioni.

Copertina di Vincenzo Bosica [ISBN-978-88-89756-50-8] Pagg. 192 – € 12,00

vittoriopiccirillo

L’Autore:

Vittorio Piccirillo nasce a Milano nel 1967 e successivamente si trasferisce a Lodi, dove attualmente vive e lavora nel campo dell’informatica.
Da sempre ha una spiccata inclinazione per le scienze e per le tecnologie. Modellista dilettante, ha realizzato una piccola flotta di astronavi in scala ridotta e dipinte a mano. Sportivo convinto, pratica attività all’aperto come il trekking e lo sci di fondo.
La fantascienza lo appassiona fin da ragazzo e con orgoglio egli vanta una ricca collezione di libri inerenti al genere, a cui si sono aggiunti in tempi più recenti film e telefilm in videocassetta e DVD.
Ha pubblicato per le Edizioni Solfanelli tre romanzi sci-fi La Nebulosa degli Spettri (2009), La Profezia della Luna Nera (2010) e La voce della distruzione (2013).

 

 

Storie del Necronomicon – Max Gobbo – Recensione
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Voglio consigliare a tutti la lettura del libro di Max Gobbo, Storie del Necronomicon (ed. Tabula fati), che già dalla splendida copertina di Vincenzo Bosica (che si conferma uno dei migliori grafici contemporanei!) si presenta più che invitante.

Il volume è sostanzialmente strutturato come un’antologia di racconti – sulla scia dei maestri pulp che hanno dato vita al genere sulle riviste americane degli anni ’20 e ’30 – facilmente godibili se letti singolarmente, ma in realtà spesso legati da un sottile fil rouge che li lega fra loro.

Il libro è soprattutto un pastiche lovecraftiano, come evidente già dal titolo che richiama subito il famoso pseudobiblium inventato da Lovecraft, ma in molti tratti è parimenti debitore al grande maestro del heroic fantasy Robert E. Howard, sapientemente fuso con l’universo dell’altro grande autore citato. Così, accanto a storie in pieno stile lovecraftiano, troviamo racconti che presentano ambientazioni più fantastiche e addirittura personaggi, come il guerriero Kmer, che sembrano proprio usciti dalla penna di Howard, mentre lo stesso scirttore texano diventa personaggio di alcuni intrecci, in cui realtà e finzione si mescolano sapientemente.

Il libro gioca infatti anche con il mistero e con la realtà, confondendo le carte e portando a domandarsi se le grandi scoperte e inchieste giornalistiche di Jack Shepard esistano davvero (come ce lo si domanda del personaggio), così come da sempre tanti si chiedono se il Necronimicon esista… Forse il testo maledetto è stato anche in possesso di Lovecraft e Howard, come sembra rivelarci questo libro?

Insomma, il volume non può che piacere agli amanti del Solitario di Providence e del mondo che è sorto dalla sua narrativa.

Una nota sullo stile dell’Autore, che richiama esattamente il modello degli autori succitati di pulp, sembrando per certi versi magicamente uscito proprio dalle riviste dell’epoca, come se i racconti fossero degli inediti dei grandi maestri, miracolosamente risorti, piuttosto che l’opera di un nuovo e talentuoso autore. Il testo è scorrevole e si legge con piacere e facile comprensione: Gobbo sembra scrivere in maniera fin troppo semplice, con periodi brevi e taglienti, che non affaticano. Eppure, è sorprendente soffermarsi e notare come lo stile, contrariamente alle apparenze, sia frutto di grande maestria, perché quella linearità è il risultato della scelta perfetta di vocaboli che calcano precisamente il significato che l’autore vuole trasmettere, così che parrebbe impossibile sostituirli con altre parole. Ecco che la “semplicità apparente” si rivela così una grande dote, che porta più di una volta a complimentarsi per la capacità di utilizzare le specifiche parole usate da Gobbo e rendere così nitidamente e rapidamente il senso perfetto che vuole trasmettere.

storie del necronomicon COP new

Dalla quarta di copertina:

Chi commissionò al pittore Ben Yokhai nel 1893 il misterioso dipinto che nel corso del tempo s’è guadagnato una fama fra le più sinistre?
Qual è il contenuto innominabile del diario rinvenuto accanto al corpo senza vita dello scrittore Robert Ervin Howard nel giugno del 1936?
E infine, cosa ha scoperto di tanto spaventoso il giornalista americano Jack Shepherd?
Queste e altre domande troveranno risposta nelle pagine di questo libro che, partendo dal ritrovamento del più aborrito dei distici, narra degli abominevoli segreti che si celano oltre le nebbie impenetrabili dello spazio e del tempo che da sempre avvolgono il “Libro dei morti”.
Ma occorre usare cautela, poiché vi sono saperi proibiti che è bene ignorare, e rivelazioni sconvolgenti che l’intelletto potrebbe non sopportare.

maxgobbo

L’Autore:

 Max Gobbo alias Massimiliano Gobbo (1967), insegnante, nel tempo libero si dedica alla scrittura. Tra i suoi interessi principali figurano la narrativa dell’immaginario, la letteratura e il cinema.
È autore di diversi romanzi e di racconti fantastici come Garibaldi e i mostri meccanici e la Maschera nera, che rileggono in chiave “retrofuturista” la storia d’Italia. Nel 2010 esordisce con Protocollo Genesi edito da Aracne editrice presentato al XXIII Salone internazionale del libro di Torino.
Nel 2012 è finalista a Giallolatino col suo racconto La palude dei caimani.
Nel 2013 ha presentato al festival internazionale di fantascienza, Sticcon di Bellaria il suo Capitan Acciaio supereroe d’Italia edito da Psiche e Aurora editore, con prefazione di Gianfranco de Turris.
Maggio 2014, sulla prestigiosa rivista “Robot” (Delos Books) appare il suo racconto a tema steampunk, L’incontro di Teano.
Luglio 2014, sulle pagine di “IF – Insolito e Fantastico” rivista edita da Solfanelli compare il suo Aeronavi Italiche.
Il 2015 vedrà l’uscita d’un suo nuovo romanzo L’Occhio di Krishna per Bietti Editore.
Attualmente collabora con diverse riviste: “Skan Amazing Magazine”, “Politicamente.net”, “Letteratura Horror”, e col quotidiano on line “Barbadillo”. È curatore della sezione narrativa per la rivista “Antarès”.

Studi Lovecraftiani 14
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È finalmente uscito il nuovo numero di Studi Lovecraftiani, che contiene anche un mio intervento sullo spettacolo teatrale, tenuto a Bologna, dal titolo “L’orrore non si lascia leggere” di Marcello Bonini​ e Roberta Stella Martelli​.

Studi Lovecraftiani #14, Dagon Press, Estate 2016. Copertina di Matteo Bocci.

Acquistabile dallo store Lulu della Dagon Press: http://www.lulu.com/shop/dagon-press/studi-lovecraftiani-14/paperback/product-22758065.html

Il numero 14 di SL si presenta ricco come sempre di saggi e articoli sul mondo dello scrittore di Providence. In questa uscita è inclusa una vera primizia: “Il Sortilegio di Aphlar”, una revisione di Lovecraft di un racconto di Duane W. Rimel rimasto inedito in Italia e tradotto qui per la prima volta. I saggi riguardano Lovecraft e l’orrore cosmico, August Derleth (editore e corrispondente di Lovecraft), i simbolismi del racconto “Celephais”, L’inconscio collettivo nell’opera di HPL, Lovecraft a teatro, ecc. ecc.

Studi Lovecraftiani #14, Dagon Press, Summer 2016.Cover art by Matteo Bocci. Just published the issue #14 of Studi Lovecraftiani, the Italian journal of Lovecraftian studies founded by Pietro Guarriello in 2005. It contains the first Italian translation of “The Sorcery of Aphlar” by Duane W. Rimel, and essays about Lovecraft’s cosmic horror; August Derleth; symbolism in ““Celephais”; the collective unconscious in the works of Lovecraft; Lovecraft and the theatre, and more.

studi lovecraft 14

Il Disegno dell’Universo
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Nel mio romanzo “Il Dio del dolore”, l’intero creato è simbolicamente rappresentato da disegni che il Creatore – il dio supremo e originario – esegue nella sabbia. Sabbia di multiformi colori e lucentezze, che viene soffiata via dal Vento della creazione e portata nel Mondo (attraverso i Mondi) dove diventa reale.

Questa immagine simbolica ritrova una sua radice diretta nelle tecniche orientali di rappresentazione dei Mandala con la sabbia: il Mandala è un disegno che serve per meditare, per concentrarsi, svuotare la mente e infine entrare in contatto con l’Universo intero.

Il principio base nella cultura orientale è il non-attaccamento; l’accettazione dell’impermanenza, la mutevolezza dell’esistenza. Il dolore si crea quando si cerca di resistere al mutamento. Un po’ come non si fa fatica a nuotare se ci si lascia trasportare dalla corrente, ma diventa difficilissimo e stancante (e letale) provare ad andare contro di essa.

Così, in applicazione di questo principio, dopo aver dedicato ore a concepire un Mandala meraviglioso con la sabbia, ecco che il monaco lo distrugge, con un semplice gesto della mano: meditazione sull’effimero; la fragilità dell’esistenza, la transitorietà delle cose.

Quando l’Antico, il Dio supremo del mio romanzo succitato, spiega al giovane dio della morte e del dolore tutto questo, spiega anche come ogni volta che viene a spostarsi un solo granello di sabbia del disegno (un tassello del mosaico) ecco che improvvisamente tutto cambia. Il Disegno intero non è più uguale a sé stesso. Eppure, il Disegno intero è sempre bello e perfetto. Pensiamoci: se usiamo la stessa sabbia e gli stessi colori, impastandola in continui e diversi disegni, per quanto il Mandala muti, sarà sempre altrettanto bello e altrettanto perfetto. Soprattutto, sarà sempre altrettanto completo. Come in un caleidoscopio.

In un Universo in cui nulla si crea e nulla si distrugge, ogni componente che cambia rende sempre nuovo e da scoprire il Disegno. Se poi andassimo a sostituire la sabbia con altra sabbia, di altri colori, allora ecco che il tutto muterebbe ancora e ancora…

Cos’è un Mandala di sabbia ai nostri occhi? Cos’è un caleidoscopio con cui giochiamo da bimbi? Un giocattolo. Un divertimento.

Agli occhi del Creatore, l’intero Disegno dell’Universo appare come un fragile disegno nella sabbia. Tutto è effimero. Tutto può essere soffiato via. Tutto può essere completamente rigenerato e sostituito.

Ognuno di noi conta quanto un granello di sabbia: non siamo protagonisti di una tela; non siamo la scultura di Michelangelo. Siamo semplici granelli di sabbia.

Ognuno di noi è perfettamente sostituibile.

Il nostro dolore è il voler restare al centro del Disegno. Il volere acquisire un ruolo diverso dal pigmento.

Il nostro pensare che il nostro punto nel mosaico, accanto ad altri granelli, sia intoccabile; quando invece ognuno di noi può essere spostato, cancellato, eliminato, separato.

Si superano i lutti. Si superano le morti. Si superano i distacchi.

Quando la mente è libera dal dolore, ecco che improvvisamente non ci si pensa e tutto appare completo e perfetto: come in una nuova vita. Un nuovo Disegno.

Questo perché ognuno di noi è perfettamente sostituibile nel Disegno.

Una riga bianca.

Una pausa.

Ci vuole un attimo a digerirlo. Una vita ad accettarlo.

Giusto? Sbagliato?

Concludo, in un cerchio perfetto, tornando a “Il Dio del dolore”: lì, per chi volesse, si può trovare una possibile risposta. Quella che proprio il Dio del dolore ha trovato attraverso i secoli, alla fine dei tempi.

Là dove il tempo non esiste (è ciclico) e a ogni fine segue sempre un nuovo inizio.