Gustav Meyrink – La metamorfosi del sangue. Autobiografia spirituale – Recensione
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Con la cura del sempre encomiabile Andrea Scarabelli, torna in Italia un testo autobiografico su Gustav Mayrink, un importante scrittore “fantastico” (occultista ed esoterista per primo) del secolo scorso (primi del ‘900), ampiamente noto per opere come Il golemIl domenicano biancoLa notte di Valpurga e Il volto verde .

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I poteri delle tenebre – Dracula il manoscritto ritrovato – Recensione
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Chi segue il mio blog è sicuramente al corrente della notizia che, fra i primi in Italia, ho diffuso circa a gennaio del 2017: il ritrovamento – o meglio lo “svelamento” – di una versione alternativa del capolavoro gotico sui vampiri. Makt Myrkranna, letteralmente “I poteri delle tenebre”, si è creduto per anni essere una semplice edizione in lingua islandese del romanzo di Dracula, mentre invece lo studioso Hans Corneel De Roos ha appurato essere una versione molto differente: così traducendola dall’islandese in inglese per renderla facilmente fruibile da tutti gli appassionati del Conte Dracula.

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Gustav Meyrink – Alle frontiere dell’occulto. Scritti esoterici – Recensione
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Conosco le edizioni Arktos da alcuni anni e, in particolare, da quando acquistai la loro ristampa anastatica del fondamentale volume di “Dissertazioni sopra le apparizioni de’ spiriti e sopra i Vampiri” di Agostino Calmet, un tempo unica edizione rintracciabile del volume (tratta da microfilm, in epoca in cui le scansioni e google ancora non esistevano), e posso confermare che questo editore ha sempre avuto un occhio di riguardo per testi di esoterismo e occultismo di pregio e rarità.

Recentemente, è stata colmata una grave lacuna delle offerte librarie, recuperando gli scritti esoterici di un importante scrittore “fantastico” (ma occultista ed esoterista per primo) del secolo scorso (primi del ‘900): Gustav Meyrink, ampiamente noto per opere come Il golem, Il domenicano bianco, La notte di Valpurga e Il volto verde.

Le opere citate sono considerate tra i principali capolavori di genere fantastico degli albori del genere, almeno per la modernità/contemporaneità, sebbene siano testi complessi, in cui il fantastico è spesso tracciato in modo velato, simbolico, senza quell’eccesso scenico che invece andrà sempre più a caratterizzare il genere con indirizzo anglo-americano: il fantastico in Meyrink è il disvelamento di quell’altra parte di realtà – oltre o trascendente la nostra, ma con la quale convive – che fa parte di una più ampia e complessa weltanschauung in cui Meyrink probabilmente credeva fermamente.

“Alle frontiere dell’occulto. Scritti esoterici (1907-1952)”, raccoglie proprio gli scritti in materia del periodo indicato, tracciando una rotta tra un Meyrink ancora agli inizi della sua carriera letteraria e quello più maturo, in cui vengono analizzati argomenti trasversali e vari, con grande ricchezza dottrinale e di ricerca, in parallelo e amalgamati con fatti quotidiani della vita dell’Autore, a volte in una mescolanza tale per cui diventa difficile segnare il confine tra ciò che Meyrink ha realmente vissuto e cosa invece appare meno convincente al lettore scettico del XXI secolo.

Scopriamo che, giovanissimo, Meyrink stava per suicidarsi ed è stato proprio “salvato” dalla consegna di un opuscolo librario su volumi di occultismo, che lo hanno spronato a studiare e approfondire la materia, dai libri prima e poi con frequenti rapporti con medium di mezza europa (quasi tutti smascherati come imbroglioni) poi, per iniziare infine carteggi con santoni e asceti orientali e indù, che lo hanno portato alla pratica dello yoga e alla sperimentazione di droghe, passando anche per una fase di studio e pratica dell’alchimia, sia di stampo chimico che metafisico.

Il volume parla di fachiri e asceti induisti, di soggetti dotati di poteri quasi magici o capaci di comandare agli spiriti e ai djinn, intrecciando teorie che spaziano dal corpo sidereo di Paracelso all’esistenza di ectoplasmi, dal governo su corpi angelici al trasferimento istanteno di oggetti, il tutto riportato a una magna dottrina o teoria che riesce a mantenere stabilmente assieme e armonizzare le più disparate correnti religiose e filosofiche.

Accanto allo yoga e alla cabala, accostate come poi sempre più i moderni hanno saputo fare, c’è quindi spazio per spiegare persino le stigmati di santi e beati e riportare Gesù in un ruolo di Maestro spiriturale accanto a Sri Ramakrishna e Govinda Swami; mentre Paracelso diventa un altro interprete dei medesimi fenomeni spirituali e della composizione del Mondo cosmico in una via tantrica all’Alchimia, laddove la stessa materia viene poi trattata attraverso gli scritti di San Tommaso d’Aquino fino alla ricerca di una rara sostanza gialla, nelle profonde e antiche cloache, per arrivare a creare la pietra filosofale e trasformare i metalli in oro, esperimento che lo stesso Meyrink ha tentato quasi con successo.

L’interpretazione dei sogni e l’uso di hashish si rivelano infine strumenti anche per peculiari aneddoti della vita dell’Autore, rovinato economicamente suo malgrado, quando era direttore di una banca privata con altro socio, proprio per voci legate alle sue eccentriche condotte di vita, che però scopriamo in altri casi aver vissuto realmente fenomeni al confine con la preveggenza, capaci anche di salvargli (nuovamente) la vita o rivelargli complotti alle spalle della Storia del mondo, fino alla prima guerra mondiale o addirittura in una (satirica e comica) visione dell’aldilà.

Tutti approfondimenti che riescono ancora più chiari dal brillante saggio di postfazione di Piero Cammerinesi, fondamentale (come lo sono le note al testo) per la completa comprensione del volume e per la conoscenza di un Autore che è rivelazione: che fosse maestro della narrativa fantastica si sapeva, ma francamente non pensavo avesse avuto una vita così curiosa, ricca di fenomeni e soprattutto una conoscenza così vasta, enciclopedica e trasversale di argmomenti esoterici, ancor più soprendente per un’epoca in cui internet e wikipedia non esistevano e lo studio era basato su massicci libri o corrispondenza con personaggi esotici, studiosi o esploratori.

Il volume è a cura di Gianfranco de Turris e Andrea Scarabelli, due nomi che sono garanzia, il primo per la carriera granitica nella cura di testi narrativi e saggistici, in particolare declinanti al fantastico; il secondo, ancora giovane, vero astro nascente del settore in Italia, avendo negli ultimi anni curato (o contribuito a) tutti o quasi i principali testi di carattere realmente colto usciti in Italia che declinassero al fantastico o all’esoterico, per tacere della ricchezza di una rivista come Antarès, a cui ho anche avuto il piacere di partecipare con un breve racconto.

Dal sito dell’editore: Cabala e alchimia, yoga e spiritismo, teosofia ed occultismo, sogni e fantasie letterarie: ecco alcuni dei temi affrontati in «Alle frontiere dell’occulto», raccolta degli scritti esoterici di Gustav Meyrink (1868-1931), autore di indimenticabili romanzi come il «Golem», «La notte di Valpurga» e «L’angelo della finestra d’Occidente». Un volume che colma un vuoto, fondendo due antologie ormai introvabili, «Alle frontiere dell’Aldilà» (tradotto da Julius Evola) e «Il diagramma magico». Per capire la narrativa di Meyrink, come hanno scritto i suoi più acuti interpreti (da Jung a Zolla, da Scaligero a Evola), occorre affrontare anche la sua visione del mondo, antimaterialista e antiprogressista, a favore dell’immaginazione creatrice. Un viaggio andata e ritorno nell’Ignoto, in quel mistero che è il cuore della nostra vita. Tutte tematiche presenti in questo libro che, oltre alle prefazioni dei curatori Gianfranco de Turris e Andrea Scarabelli, all’imponente corpus di note e alle appendici epistolari, è corredato da un saggio di Piero Cammerinesi e dalle incursioni pittoriche nell’Altrove di Danilo Capua, omaggio al genio di Gustav Meyrink. Per consultare l’indice: Indice (PDF)


Pagine: 368
Anno: 2018
ISBN: 978-88-7049-119-7
26,00 €

Arthur Machen – Il cerchio verde – Recensione
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Per i tipi di Providence Press è recentemente uscito l’ultimo romanzo inedito di Machen, uno dei padri del weird e del fantastico contemporaneo, amato da Lovecraft (che si è molto ispirato all’Autore Gallese), ma anche molto legato al tema del Piccolo Popolo: ho recentemente avuto il piacere di recensire altre opere di Machen (praticamente tutte le più note e importanti), rintracciabili al tag dell’Autore su questo sito.

Trama de Il cerchio verde, dal sito dell’editore: Lawrence Hillyer, uno studioso e ricercatore di cose “nascoste”, viene costretto a trascorrere un periodo di riposo a Porth, una località di villeggiatura sulla costa del Galles. Hillyer, persona solitaria e senza amici, troverà “qualcosa” in mezzo a una radura tra le dune (il cosiddetto Cerchio Verde), una presenza che lo seguirà al suo ritorno a Londra… Il Cerchio Verde, pur nella sua brevità come romanzo, è una lettura complessa. Perché Arthur Machen approfitta delle vicende del protagonista, e delle sue ricerche per comprendere il fenomeno che si sta manifestando, per compiere una serie di riflessioni sui propri interessi di appassionato di tematiche occulte; sull’intervento di un mondo etereo che si introduce nella nostra realtà; su un regno dove vive – chissà? – la Regina delle Fate che interferisce con le vicende umane; su qualcosa che è “oltre la soglia” ed entra nel nostro mondo… e non porterà nulla di buono. Questo libro non è per un lettore casuale. Chi apprezza Arthur Machen, troverà in questo volume le ultime riflessioni sul suo interesse al mondo del Piccolo Popolo, tematica che ha sempre permeato l’opera dello scrittore gallese. Che lo porterà a scoprire quello che sarà (tra manifestazioni inquietanti, poltergeist, omicidi misteriosi, possessioni) il destino di Lawrence Hillyer.

L’AUTORE

Il gallese Arthur Llewelyn Jones (1863-1947; Machen era il cognome della madre) è uno dei più grandi maestri della Letteratura fantastica mondiale. Sale alla ribalta alla fine del XIX secolo con i due capolavori Il Grande Dio Pan e I Tre Impostori, e successivamente con Il Terrore. L’influenza della sua opera, dominata dal sovrannaturale e dall’occulto, è stata grande, sia su H.P. Lovecraft che su Stephen King.

COMMENTO:

Il romanzo segue le vicende di Hyllier, in un parallelo con articoli di giornale e lettere di studiosi realmente esistiti, che creano un “cerchio”, come quello che dà nome alla verde radura del titolo, in cui il fantastico e il reale si intrecciano e susseguono senza soluzione di continuità. Accanto ad atmosfere tipiche di Machen, più vicine ad opere “leggere” come Un frammento di vita, rispetto ad opere più cupe come Il grande dio Pan, il lettore si trova ad assistere a una serie di inspiegabili circostanze ed eventi che sembrano celare l’intervento di forze esterne e che Machen pare riportare al tema del Piccolo Popolo e alla presenza di folletti, fate e altre entità accanto al nostro mondo.

Il tema è costante in Machen, così come la percezione di una realtà trascendente concessa a pochi, sognatori e alchimisti in senso metafisico (più che chimico), al punto che pochi sono capaci di cogliere la magia oltre la prosa della vita quotidiana.

Al contempo, ad ancora meno spettatori (forse sfortunati) è poi concesso di interagire con quelle forze che, nella visione dell’Autore, hanno sempre un lato ambiguo e spaventoso, malevolo e terrificante.

Il volume è un interessante resoconto anche di quello che potrebbe essere un primo e dettagliatissimo caso di poltergeist, di cui Machen – frequentatore di ambienti esoterici come la Golden Dawn – dimostra di conoscere i dettagli “scientifici” con precisione: cosa interessantissima, considerando che ciò rivela come già nelle prime decadi del 1900 gli elementi costantemente presenti in episodi di presunti Poltergeist risultino coerenti rispetto a quelli messi in luce ed elencati anche dalla più recente dottrina di parapsicologia [cfr. gli articoli di CSPBO, ad es. l’articolo di Aiazzi sul Poltergeist, oppure “Un possibile caso di poltergeist in Lombardia” di Bruno Severi, Giorgio Cozzi, Stefano Severi e Giuseppe Perfetto, resoconto dell’indagine eseguita di recente in collaborazione tra esponenti del Centro Studi Parapsicologici (Bologna) e dell’Associazione Italiana Scientifica di Metapsichica (Milano) sul n. 2/2011 dei Quaderni di Parapsicologia, del Centro Studi Parapsicologici di Bologna.]

Casistiche in cui Machen, in realtà, con stupore del lettore, dimostra di non credere realmente, pur ricollegando tutto il tema al regno delle Fate, come meglio chiarito nel saggio – contenuto sempre nel volume Providence Press – «In Occlusum Regina Palatium»: il cerchio indicibile di Arthur Machen di Giacomo Ortolani; una postfazione che, per complessità, ricchezza di approfondimento e spessore delle riflessioni, rappresenta un vero e proprio saggio degno della migliore ricerca specialistica in materia.

Il romanzo, in definitiva, con una struttura più solida e convincente di altre opere, offre una piacevole lettura di distrazione che – senza picchi di orrore cosmico – porta comunque sul ciglio del regno delle fate e a indigare sui grandi misteri del paranormale: una lettura necessaria e dovuta per i fan dell’Autore, che troveranno il testamento letterario di Machen in questa ultima opera scritta prima di morire, ma al contempo un interessante spunto di riflessione per chiunque ami la materia del paranormale, a prescindere dall’apprezzamento per la narrativa di genere.

Il volume è di prossima pubblicazione anche in una tiratura LIMITATA E NUMERATA DI 59 COPIE (256 pagine al Prezzo di copertina: 39,00 euro) che conterrà, oltre al romanzo e al saggio di Ortolani citato, alcuni contenuti EXTRA esclusivi dell’edizione Deluxe, cioé i tre racconti inediti di Arthur Machen:
7B Coney Court
dove strane lettere vengono spedite da una casa in cui, teoricamente, non abita nessuno
La luce che non potrà mai essere spenta
dove strani accadimenti colpiscono la città natale di Shakespeare
La strada per Dover
dove una misteriosa sparizione si verifica durante una veglia in una casa infestata.

Per info sulla versione Deluxe (QUI maggiori informazioni)

Caratteristiche del volume in edizione regular: brossurato 14,8×21; 192 pagine; euro 17,90.

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Mark Alan Miller – Hellraiser: Il tributo – Recensione
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In contemporanea con gli USA, ecco la prima edizione italiana della novella ‘Hellraiser: The Toll’ (2018), in italiano “Il tributo”, romanzo breve che va a inserirsi nella saga di Hellraiser, ideata da Clive Barker e in questo caso scritta da Mark Alan Miller, dopo il romanzo ‘Schiavi dell’Inferno’ (The Hellbound Heart, 1986) e prima di ‘Vangeli di Sangue’ (The Scarlet Gospels, 2015), tutti pubblicati da Indipendet legions.

Sebbene il libro rappresenti un capitolo a metà tra le altre opere, in buona parte mi pare quasi svolgersi in parallelo con Vangeli di sangue e francamente suggerirei comunque di leggerlo dopo aver letto entrambi gli altri volumi, per meglio poter comprendere alcuni riferimenti che altrimenti rischierebbero, a mio giudizio, di restare un po’ impalpabili, se non dei potenziali spoiler.

In questo romanzo breve (circa 90 pagine, con illustrazioni b/n originali di Clive Barker e, in questa edizione, con una splendida copertina di Daniele Serra, già autore della copertina di Schiavi dell’Inferno) ritroviamo il ben noto personaggio di Pinhead, demone con la testa piena di chiodi dell’Ordine dei Cenobiti, ben noto nell’immaginario anche cinematografico della saga; ma ritroviamo soprattutto il personaggio di Kirsty Cotton, già apparsa nel primo capitolo della storia, cioè nel suddetto Schiavi dell’Inferno.

Il romanzo, risponde alla domanda che molti, forse tutti si ponevano, sul destino di questo personaggio umano e mortale, e la sua attuale posizione rispetto all’Ordine dei Cenobiti, separati dal nostro mondo solo da sottilissimi confini che in un attimo possono frantumarsi, trascinandoci nell’orrore. La trama rivela nuovi dettagli anche su Lemarchand, il mitico creatore delle Configurazioni del Lamento, le scatole capaci di evocare i Cenobiti.

Come atmosfera ed eventi, ma anche nello stile, il romanzo è molto più simile al primo capitolo della saga e più distante dal tono “scanzonato” e avventuroso di Vangeli di Sangue: il libro è comunque scritto bene e si legge in grande scioltezza, essendo sintetico e piacevole… Sul finale non rivelo nulla, ma auspico che questo titolo possa anticipare altri spiragli per nuove evoluzioni della trama, magari in un capitolo che prosegua gli eventi laddove si era chiuso Vangeli di Sangue.

Clive Barker – Vangeli di Sangue – Recensione
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Mentre è stata annunciata la prima edizione italiana della novella ‘Hellraiser: The Toll’ (2018), in italiano “Il tributo”, sequel canonico, ideato da Clive Barker e scritto da Mark Alan Miller, di ‘Schiavi dell’Inferno’ (The Hellbound Heart, 1986) e prequel di ‘Vangeli di Sangue’ (The Scarlet Gospels, 2015), ecco che mi pareva opportuno soffermarmi su una mia personale riflessione in merito proprio a quest’ultimo romanzo, pubblicato in italia sempre da Indipendet legions.

Vangeli di sangue rappresenta l’ultimo (almeno per ora) capitolo della saga di Hellraiser, nota anche per i film omonimi, fortemente incentrata sul personaggio di Pinhead, demone con la testa piena di chiodi, sacerdote del dolore e del piacere, nell’Ordine dei Cenobiti.

Il romanzo, oltre alla presenza di Pinhead, presenta anche un altro personaggio celebre di Barker, il detective dell’occulto Harry D’Amour, apparso in alcune altre opere barkeriane come il 6° vol. dei Libri di sangue e il romanzo Everville.

Il romanzo si apre con una scena a fortissimo impatto splatter, che rappresenta il più compiuto legame dell’opera con l’universo cenobitico e anche con la saga cinematografica.

Poi, la prima parte della storia si incentra proprio sul personaggio del detective D’Amour, ed è sicuramente la parte migliore del romanzo, toccando alcune delle migliori vette in materia di horror moderno e di occultismo. D’Amour è molto amico di una medium cieca, di nome Norma, che fondamentalmente utilizza i propri poteri per aiutare i fantasmi di persone recentemente morte che, nella fretta del trapasso, hanno lasciato alcune questioni in sospeso: coinvolto nel caso di in uno di questi peculiari clienti, D’Amour entra in contatto con la scatola di Lemarchand e con i Cenobiti.

D’Amour è ricoperto di importanti tatuaggi dalle forti valenze occulte e medianiche ed è versato nella conoscenza di incantesimi e cose spiritiche: sono questi gli elementi che sviluppano un personaggio incredibilmente solido e che rendono così intrigante e pregevole questa parte del romanzo. La sospensione dell’incredulità nel lettore opera sapientemente, proprio perché l’intero sistema di leggi che regolano il mondo spiritico, in contatto con il nostro, è strutturato con una coerenza e una abilità di rara qualità.

Entrando in contatto con Pinhead, però, la trama prenderà una piega e un taglio molto diversi: ne deriverà la spedizione di un manipolo di eroi, capitanati proprio da D’Amour, in una discesa nelle viscere dell’Inferno (dalle forti assonanze con il viaggio Dantesco), attraverso la città dei dannati e il monastero dei cenobiti, incontrando tribù di demoni e creature abissali, fino alla cattedrale di Lucifero, dove l’Angelo Caduto attende ancora… Fino allo scontro finale tra le due creature archetipali: il demone cenobita Pinhead e proprio Lucifero.

Questa parte del romanzo, che sfocia in duelli molto violenti, ha una struttura che ricorda più il fantasy che lo horror e, appunto, rappresenta una sferzata sensibile rispetto alla prima parte del romanzo, francamente forse deludendo un po’: la trama riceve sviluppi molto d’azione, anche banali se vogliamo, allontanandosi da quel complesso di teorie occulte che invece inizialmente ammaliava tanto e prometteva troppo… Nonostante il finale del libro sia affatto scontato o banale, anzi… Ma non rivelo troppo!

Lo stile di Barker è come sempre egregio e i dialoghi sono sempre ben strutturati e funzionali alla narrazione.

L’edizione è ben curata nonostante il carattere sia lievemente piccolo e la tipologia di stampa non sia eccelsa (la copertina è molto sottile) e potrebbe invogliare ad acquistare l’edizione di lusso, in edizione numerata e limitata, caratterizzata da carta di qualità, rilegatura e immagini esclusive.

vangeli sangue

Somnia – Recensione
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Somnia (Before I wake) è un film horror del 2016 (diretto e scritto a più mani da Mike Flanagan) incentrato sulla vicenda di un bambino orfano, perennemente affidato a famiglie diverse (che subiscono varie tragedie), di fatto capace di dare vita, in forma materiale, ai suoi sogni e ai suoi incubi… Con il risultato che, se i sogni sono bellissime farfalle meravigliose e permettono di riabbracciare persone care e rivivere momenti passati, gli incubi sono la personificazione di un mostro – “l’uomo cancro” – capace letteralmente di divorare la gente.

L’idea non è nuovissima – concettualmente ricorda “Nightmare” – ma è gestita in maniera originale e conturbante.

Il cast (Thomas Jane e Kate Bosworth) non brilla, nonostante faccia il suo lavoro egregiamente: il bambino protagonista (Jacob Tremblay) è bravo e penso lo rivedremo presto in altre pellicole.

Il film è piacevole, nonostante siano pressoché assenti scene di terrore vero e non conceda particolari tremori o salti sulla sedia.

La trama, costellata di personaggi dalla psiche al limite col patologico (e discutibili come genitori), tende a una involuzione che porta a domandarsi “dove andranno a parare” con il dubbio che finisca tutto in uno dei due modi classici del vicolo cieco: “tarallucci e vino” o “vaccata”.

Da qui seguono possibili spoiler…

Di fatto il finale fonde assieme le due paure precedenti, finendo in un “tarallucci e vino” che è anche “vaccata”: non si chiarisce quasi nulla, né è chiaro il destino dei personaggi, ma veniamo rassicurati (?) che tutto è tornato più o meno alla normalità (?!).

Di fondo tutto gira intorno a una personificazione del cancro che ha divorato la madre del bambino in una entità mostruosa (cosa che si capiva quasi da subito); ma gli autori non si spingono oltre nel dare un senso e una coerenza a una storia che probabilmente non sapevano nemmeno loro dove volesse andare a parare e come finire.

somnia

The Conjuring 2 – Il Caso Enfield – Recensione
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Finalmente è uscito anche in Italia il seguito del film Horror The Conjuring: all’epoca del primo film non curavo ancora il sito come oggi, ma chi mi conosce sa cosa penso di quel film, che reputo uno dei migliori horror dell’ultimo decennio. Peraltro, in generale, al regista James Wan attribuisco i migliori risultati horror e lo reputo un genio: basti ricordare che è dietro a Saw-L’enigmista, alla saga di Insidious (che con Conjuring ha molti punti di contatto) e di altre prove notevoli, fra cui appunto Conjuring 1 e 2.

Il sequel si presenta francamente all’altezza di quanto atteso e sperato: forse leggermente sottotono rispetto al primo film, con un finale frettoloso, tuttavia regala un prodotto ben orchestrato, convincente, con molte scene ben curate e d’effetto, capaci anche di spaventare quanto necessario.

La storia è ispirata a fatti veri (una buona descrizione del caso originale la trovate qua): fine anni 70, Inghilterra, in una casa dove vive una donna con 4 figli (due maschi e due femmine), la più giovane delle ragazzine inizia ad assere vittima e testimone di fenomeni paranormali inquietanti. Lievitazione, oggetti che si spostano, colpi… Un poltergeist? Una messinscena? Il fantasma del precedente proprietario?

caso enfield

Il film da questa storia trae una propria sintesi e interpretazione, inserendo anche una mefistofelica apparizione di un’entità blasfema in abito da suora… Visivamente la figura più dirompente del film, al punto che è già stato annunciato uno spin-off che avrà per “protagonista” questo personaggio (come già accaduto per la bambola Annabelle comparsa nel primo episodio di The Conjuring, poi protagonista di un prequel/spin-off e che rivedremo presto in un altro episodio in uscita nel 2017, verosimilmente da porsi a metà tra gli altri due film).

demon nun

Il contenuto del film, per essere critici, riecheggia molti elementi tipici del genere (come già il primo Conjuring era debitore a L’esorcista, Poltergeist e La bambola assassina) e si può considerare un ennesimo prodotto fatto su misura con una ricetta nota del regista James Wan; nulla di particolarmente nuovo o stupefacente. Eppure, il film – anche forte di questo know-how – offre esattamente il tipo di intrattenimento che promette e deve offrire. La ricetta di Wan non sarà, almeno questa volta, un piatto nuovo, ma è di quelli si mangia sempre volentieri, magari con un bis.

Particolare l’inserimento di alcune scene romantiche o gioiose che, pur rendendo il tutto lievemente più stucchevole, di fatto non influiscono negativamente sul ritmo del film o sull’atmosfera, che nei momenti salienti resta alta e ben orchestrata.

Insomma, se avete amato il primo Conjuring non potete perdere questo nuovo episodio (e se non avete visto altri film tra quelli citati, in particolare Annabelle, gli Insidious o Saw, direi che avete un bel po’ di cinema da recuperare). Senza fretta nell’alzarvi dalle poltrone, perchè nei titoli di coda Wan offre registrazioni audio dal caso originale e un collage di foto di repertorio sempre delal storia vera dietro al film!

Il mistero di Villa Clara (Bologna)
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A seguito del rinnovo del sito, per cui molte pagine sono andate perse, mi pare doveroso recuperare immediatamente il testo di uno degli articoli più vecchi e amati: la storia della “casa infestata” più celebre di Bologna, “Villa Clara”.

All’epoca in cui scrissi quest’articolo – parliamo circa del dicembre 2006! – non si sapeva nulla di preciso sulla storia della Villa e fui il primo, dopo un pomeriggio speso in ricerche nella biblioteca dell’Archiginnasio, a fare finalmente luce sulla reale dinamica dei fatti… Dopo di allora, tanti mi hanno copiato senza nemmeno citarmi.

Ebbene, di seguito la storia, nell’ordine cronologico in cui io stesso la scrissi e scoprii.

Ogni luogo possiede un patrimonio più o meno noto di storie incredibili, leggende o misteri: Bologna non fa eccezione a tale regola.

In generale, si può osservare come l’Emilia Romagna sia, da lungo tempo, una regione ricca di segreti: celebre è il caso della Rocca di Montebello, vicino a Rimini, meglio nota come il Castello di Azzurrina.

In quel luogo, infatti, si dice che sia morta, secoli fa, una bambina, il cui fantasma abiterebbe ancora la fortezza, al punto da essere stata sentita piangere: addirittura, il suo lamento sarebbe stato registrato con esperimenti di psicofonia.

Probabilmente, alla diffusione di racconti come questi si deve anche la nascita del mistero inerente Villa Clara.

La Villa si trova un po’ fuori Bologna, al n. 449 di Via Zanardi, a poca distanza dalla località Trebbo di Reno. Di fatto si trova in aperta campagna, immersa in campi dove non si spinge nemmeno l’illuminazione stradale e dove, talvolta, si alzano fitti banchi di nebbia. Il visitatore che si spingesse in quel luogo si troverebbe innanzi una casa fatiscente, circondata da un giardino incolto e ipertrofico; scritte sui muri e un cancello più volte rattoppato e sigillato da robusti catenacci. In realtà, la Villa ha mura perimetrali solo nella parte anteriore ed il portone è praticamente sfondato: quindi chiunque potrebbe penetrarvi, chiaramente compiendo un reato. Infatti, tale Villa è proprietà di qualche privato o, più probabilmente, del Comune.

Attorno alla Villa sono sorte, negli anni, strane dicerie, che l’hanno resa oggetto di una vera e propria urban legend. Una leggenda metropolitana non è qualcosa di diverso da una normale leggenda. Infatti, se per anni oggetto delle storie misteriose sono state superstizioni bucoliche e pagane, oggi, in un periodo di globalizzazione che volge lo sguardo ad un mondo sempre più tecnologico, anche le leggende si sono urbanizzate, andando a colpire aspetti assai comuni della vita o realtà molto meno favolistiche o ancestrali. Una comunissima casa di città; un cimitero; le fogne e i cunicoli della periferia, per non parlare di eventuali sottopassaggi o metropolitane: tutti i luoghi, una volta ammantati nell’oscurità di una notte sempre più criminalizzata e violenta, sono scenari perfetti per ambientazioni adatte ai migliori film horror.

In merito a Villa Clara la storia ricalca il clichè classico della ghost story: protagonista è diventata una fantomatica bambina, di nome Clara (sic!). La Villa, si narra, sarebbe stata abitata dalla blasonata famiglia Alessandri. Clara sarebbe stata figliastra del padrone della Villa, un nobile, che l’avrebbe poi murata viva all’interno della stessa costruzione, per punirla di una tresca incorsa tra costei ed un sottoposto del casato. Non trovando pace per la tragica condanna, la giovane Clara si sarebbe trasformata in uno spirito che tutt’ora infesterebbe la Villa, la quale prenderebbe il nome verosimilmente dalla fanciulla stessa.

È di totale evidenza come la storia sia alquanto scontata e, peraltro, non priva di contraddizioni. Seguendo tale formulazione, ci si troverebbe innanzi ad una adolescente, con pruriti amorosi: peccato che il fantasma sarebbe comunemente identificato con una bambina, di qualche anno più piccola.

Altre versioni non si soffermano sul movente del delitto, limitandosi a parlare di questa bambina murata viva, per qualche perversa ragione… Inutile sottolineare le similitudini con la leggenda di Azzurrina, che considero, per tali ragioni, il principale archetipo di tale racconto.

Ovviamente, la Villa è diventata il teatro di avventure e prove di coraggio per molti adolescenti, che vi si recavano per confutare la storia: sperando d’incontrare il fantasma di Clara.

Villa Malvasia 1

Figura 1 : Qui sopra, un’immagine della Villa, come appariva una cinquantina d’anni fa, ancora in condizioni discrete.

 

Sono fiorite, in tal modo, miriadi di narrazioni in tutto identiche alle più banali storie del terrore: si inizia da semplici sensitivi che hanno percepito oscure presenze, a veri e propri eletti cui si sarebbe manifestato il fantasma in persona (rectius: in ectoplasma). Sarebbero accaduti fenomeni inspiegabili, in quella casa: accompagnati, non raramente, da strane voci…

L’apice del grottesco è stato raggiunto dalle immagini realizzate dagli esploratori improvvisati, quasi sempre veri e propri inetti della fotografia, che in un delirio di psicosi sono riusciti a “vedere” le entità più assurde là dove non vi era nulla o – al più – vi erano incrostazioni, muffe, riflessi, etc.

Incuriosito da questa leggenda, ho deciso di fare una ricerca io stesso, arrivando a ricostruire quella che è la vera storia della Villa, originariamente nota come “Casino del Trebbo” e, poi, come “Villa Malvasia”.

Preziose informazioni sull’origine storica della villa sono rinvenibili nel volume “Castelli e ville bolognesi” (BESEGHI; Bologna, 1957):

«IL CASINO DEL TREBBO DEL CANONICO MALVASIA

«Al Trebbo è il casino Malvasìa, meglio, per una indicazione più esatta, esso è alla fine della lunghissima via delle Lame che si protende oltre l’abitato cittadino fino a penetrare nella vecchia località del Trebbo. Trebbo significa incrocio di strade, ma qui le strade sono tante e allora il nome si è esteso a una ben nota località suburbana.

«Al n. 581, dunque, di via delle Lame è uno dei più singolari casini di campagna che le famiglie bolognesi si costruissero fuori dalle mura cittadine e in prossimità a esse. Singolare perchè in esso l’associazione del padrone di casa con l’artista è strettissima e quando il canonico Carlo Cesare Malvasìa, pittore, storiografo d’arte e scrittore, diceva “il mio casino al Trebbo”, affermava un possesso non soltanto materiale ma di padre verso la creatura. Il canonico e conte Carlo Cesare Malvasìa visse dal 1611 al 1693 e nella sua lunga vita densa di studi, di opere e di osservazione, ebbe modo di conoscere e penetrare il mondo artistico della sua città in modo profondo e ampissimo. I suoi scritti sulla pittura e i pittori bolognesi e, soprattutto, la sua Felsina pittrice sono fondamentali per lo studio dell’arte bolognese. »

Villa Malvasia 2

Figura 2 : Qui sopra, il camino della sala al piano superiore.

 

«Al Trebbo il Malvasìa esercitò le sue Conoscenze di architettura e quelle di pittura — era stato allievo di Cavedoni un epigone dei Carracci — disegnando lui stesso il suo casino al Trebbo e lavorando ad alcuni ornati interni. Il bravo canonico nel concepire quel palazzetto lo delineò d’una eleganza semplice, gustosa, con la porta d’ingresso inquadrata fra lesene accoppiate. Le decorazioni riguardano unicamente il piano terreno, ove, cioè, il Malvasia ospitava frequentemente gli amici, studiosi e artisti, e gli accademici Gelati, che nel seicento furono famosi a Bologna. Si faceva musica, poesìa, si discuteva d’arte particolarmente dopo ricchi pranzi. Erano conviti d’intellettualità, di quella intellettualità seicentesca pletorica e acuta. In quel casino molta parte della vita del XVII secolo è passata: era uno degli ambienti più interessanti di Bologna.

«Il luogo era attraente, molto riservato perchè chiuso, e lo è ancora, da mura merlate, con sale decorate dal Dentone, dal Valesio, dal Togni, da Franceschino Caracci e da Angelo Michele Colonna.

«Ora il casino Malvasia al Trebbo, è occupato non da una famiglia che possa curarlo, ma da tante, in conseguenza ancora della guerra. Eppure fra questa gente è vivo lo stupore per le pitture che ornano le pareti e i soffitti, e guardano come a una meraviglia e cercano di conservarle nel miglior modo possibile. Ahimé, se il buon canonico Malvasìa rivedesse il suo amatissimo casino del Trebbo, avrebbe ragione di aggiungere una considerazione amara a quelle liete che occupavano la sua vita e la sua intelligenza.»

Villa Malvasia 3

Figura 3 : Qui sopra, particolare di un fregio dei pannelli che adornano la sala.

 

Questo è quanto più approfonditamente descritto, relativamente alla Villa, nel volume “Ville del Bolognese” (di G. CUPPINI – A.M. MATTEUCCI; Zanichelli, Bologna, II Ed.):

«Villa Malvasia

«Comune di Bologna, Via F. Zanardi 449, proprietà: Alessandri.

«L’Ungarelli e il Beseghi la vogliono costruita dal canonico Carlo Cesare Malvasia (1616-93), noto storiografo della pittura bolognese, ma, se è vero che egli possedette la villa, è altrettanto certo che non a lui si deve ascriverne la costruzione e la decorazione, perché, come ricorda lo stesso Malvasia e come ripete l’Oretti, vi dipinsero artisti che operavano quando il Malvasia non era ancora nato od era in giovanissima età. Ecco le parole del Malvasia: “Nel nostro palagetto al Trebbo [Girolamo Curti detto il Dentone] dipinse il bel soffitto della saletta che per certa sua bizzaria e prova volle dipingere a tempra s’un tavolato di asse di abeto egregiamente commesse e che in ogni modo col tempo han fatto qualche motivo, e in forma di T la doppia loggia in volto a fresco in ciaschedun de’ sfondati, ne’ quali vagamente l’andò dividendo e per ogni balaustrata facendovi colorire varie figure al Brizio, a Tognino ed a Franceachino Carracci, al Valesio e simili allora giovani, non d’altro pagandoli che della sua dolce conversazione ed allegria ad una lieta mensa le feste; godendo essi altresì in tal guisa esercitarsi e svegliarsi; pratica che riuscirebbe a dì d’oggi molto difficile, pretendendo i giovani alle prime pennellate esser già fatti maestri.”

«Non si conoscono le vicende della villa durante il Settecento e l’Ottocento; ai primi del nostro secolo appartenne al Cav. Ferdinando Bonora, che vi arrecò numerosi miglioramenti, e alla cui morte, avvenuta nel 1917, fu ereditata dalla figlia sig.ra Zaida Bonora in Francia. In seguito venduta, la villa passò in mano a vari speculatori che misero a repentaglio la sua conservazione, adibendo la loggia d’ingresso a rimessa di carri da trasporto che venivano fatti entrate per una rampa posticcia; nel 1928 fu acquistata dalla sig.ra Clara Mazzetti ved. Barzaghi che arredò le sale del piano terreno. Oggi la villa è abbandonata e presenta grande necessità di restauri.»

 

Villa Malvasia 4

Figura 4 : Qui sopra, altro particolare dei fregi della sala.

 

Gli autori del libro continuano (ibidem) fornendo una dettagliata ed interessante descrizione dell’elaborazione artistica della Villa:

«La decorazione dei vari ambienti del Casino Malvasia di Trebbo, è, ovviamente, più volte ricordata dall’autore della «Felsina Pittrice». Difficile però, anche in questo caso, la divisione delle parti fra gli artisti citati. Spettano senz’altro al Dentone le architetture dipinte nel soffitto ligneo della grande sala. Di notevole qualità sono i paesi dipinti nel fregio di detto vano, forse da ricondursi a Menghin del Brizio, dato che il Malvasia ricorda l’abilità dal pittore nel batter di frasca. Di fattura assai andante le figure, ora in parte ritoccate, che accompagnano i semplici partiti architettonici della loggia e controloggia. A nostro avviso la mano del Colonna, la cui presenza nella villa è certa, dato che qui si ammalò per l’eccessiva umidità (Malvasia), è forse rintracciabile nelle figure a monocromo del fregio della grande sala, nonché nelle comparse del soffitto ligneo. Più difficile individuare la presenza del Valesio e di Antonio e Franceschino Carracci, pure ricordati dal Malvasia.

«Lo stato di conservazione degli affreschi in alcuni punti è assai compromesso da pesanti restauri.

«Il Malvasia ricorda che l’opera, iniziata prima della decorazione nella Paleotta, venne portata a termine dopo la conclusione dei lavori in quella villa. Dato che in questo secondo momento il Colonna si ammalò, possiamo datare le decorazioni intorno al 1624, anno in cui il giovane pittore torna a Crevenna per guarire dal male contratto.»

Sulla scorta delle informazioni rinvenute è possibile, sinteticamente, riassumere e risolvere la questione.

La Villa comunemente nota col nome di “Clara” ed oggetto di storie di fantasmi, era originariamente nota come “Casino del Trebbo”, proprio perché sorta in prossimità dell’omonima frazione bolognese, peraltro in un punto all’epoca corrispondente al civico n. 581 di Via delle Lame, successivamente diventato il n. 449 di Via Zanardi.

La sua più antica datazione può tranquillamente essere indicata intorno al 1624; successivamente fu arricchita dal suo storico proprietario, Carlo Cesare Malvasia, cui si deve il nome storico – “Villa Malvasia” – e che la fece decorare da insigni pittori bolognesi, fra cui spiccano Colonna e Carracci.

Successivamente la Villa ha subito numerosi passaggi di proprietà, subendo anche vicissitudini che ne hanno compromesso la conservazione, con particolare riferimento alle opere d’arte in essa racchiuse.

Nel 1928 fu acquistata da una certa sig.ra Clara Mazzetti ved. Barzaghi, alla quale probabilmente si deve il nuovo nome attribuito alla Villa, diventata, appunto, “Villa Clara”.

Ritengo, peraltro, difficile che una vedova, in età e condizioni tali da poter acquistare un immobile così ricco, potesse essere una ragazzina o una bambina.

Da ultimo gli autori indicano la proprietà Alessandri: la quale, pertanto, ritengo sia l’attuale proprietà dell’immobile, sempre che, nel frattempo, non siano intercorsi successivi passaggi od il bene non sia stato acquistato o ereditato dallo stesso Stato.

Ritengo, conseguentemente, ancor più improbabile che una bambina di nome Clara sia stata uccisa in tempi così recenti in quel luogo: quantomeno ciò negherebbe comunque la leggenda, che si riferisce ad eventi antichi e riferibili a nobili casati.

È assai più logico che, sulla scorta del solo nome da ultimo attribuito alla Villa (“Clara”) e sulla stessa indicato, nonché riferendosi al cognome della più recente proprietà, sia stata artatamente costruita un’affascinante ed inquietante leggenda, ricalcata sulle più note e diffuse storie di fantasmi, in primis su quella della conterranea Rocca di Montebello e la sua piccola Azzurrina.

Inoltre, la casa sarebbe stata, in anni recenti, palcoscenico di messe nere e di occulte cerimonie: nelle quali la leggenda ha trovato terreno fertile in cui installarsi e crescere.

Nulla di soprannaturale, però, può essere rintracciato in questa storia, rivelatasi pressoché interamente un falso: il vero orrore è che sia stato completamente abbandonato a se stesso, privo di cure o custodia, un simile tesoro di dipinti e antichità.

[CASO RISOLTO]

Alcuni anni dopo che scrissi quell’articolo,  una notizia apparsa su “il Resto del Carlino”, quotidiano di Bologna, precisamente in data 2 aprile 2009, completò le informazioni già da me raccolte tempo prima sulla fantomatica ghost house di Bologna, la “infestata” Villa Clara.

La verità è definitivamente venuta a galla: nessun fantasma, nessuna villa stregata.

Una verità che farà dispiacere a molti… A tutti coloro che non potranno più credere in una leggenda pittoresca, ricordata anche nell’articolo in questione, in una versione che – per la sua collocazione in un quotidiano – vale la pena citare: “La leggenda narra che, ai primi del ‘900, il palazzo ospitasse padre, madre e una bimba chiamata Clara, che pare fosse dotata di poteri di chiaroveggenza: avvisava i suoi genitori di avvenimenti che sarebbero accaduti in futuro, indovinandoci. Si dice che il padre, esasperato e forse intimorito dai suoi poteri, una notte preso da un raptus di follia la murò viva all’interno della casa. Da allora raccontano che in certe notti si senta ancora la bambina piangere, cantare lamentarsi oppure la si veda girovagare in giardino.

Tuttavia, la cosa più importante è che finalmente i preziosi ed antichi dipinti ed affreschi contenuti nella Villa saranno recuperati e salvati!

Dal testo dello splendido ed illuminante articolo apparso, a firma di Nicola Cappellini, risulta in particolare che “I lavori di restauro — realizzati dall’ impresa edile ‘Paganelli e Guidotti’ di Zocca su progetto dell’architetto Stefano Capponi e dell’ingegner Claudio Martini e sotto la supervisione della Sovrintendenza per i beni architettonici — sono iniziati dal tetto, che è stato praticamente rifatto, e stanno procedendo col consolidamento dell’edificio, mentre i circa 400 metri di affreschi che decorano le sale interne sono stati ‘velinati’, ovvero coperti con della carta giapponese, e saranno presto oggetto di un attento restauro. La villa dovrebbe essere interamente recuperata tra un paio di anni, con una spesa complessiva di 3 milioni di euro (e un contributo della Sovrintendenza). I suoi attuali proprietari — la signora Maria Vittoria Bossi e il figlio Zeno Sbardella — sognano di farne un centro per ricevimenti e matrimoni e forse anche una scuola d’arte.

Infatti, ora la Villa, per anni oggetto di vilipendio ed effrazioni, ha dei precisi proprietari, la cui storia – ironia finale – ricalca ancora una volta i cliché della narrativa dell’orrore: perchè, dopo anni, con il testamento di un vecchio parente, l’attuale proprietaria ha scoperto, ignara di tutto, di aver ereditato da un lontano parente la “villa stregata”.

Questi i dettagli dell’articolo: Storia antica e tribolata quella di Villa Malvasia. Non si conosce la data esatta della sua costruzione, anche se è probabile che sia avvenuta tra il 1572 e il 1585. A dirlo è lo stemma di Papa Gregorio XIII, che campeggia sulla sommità del camino nella sala principale. Era infatti consuetudine, a quei tempi, riferire il periodo di costruzione di un edificio appartenente ad un nobile casato proprio al Pontefice regnante in quegli anni. E’ certo, invece, che il suo più illustre proprietario, il conte Carlo Cesare Malvasia, nel suo testamento del 22 dicembre 1692, lasciò il gioiellino di via Zanardi (allora via delle Lame) all’Arciconfraternita della Vita. Ma da quella data in poi la storia del Casino del Trebbo si fa oscura per tutto il Settecento e l’Ottocento. La villa ricompare negli annali delle cronache cittadine nel 1905, quando diventa di proprietà del cavalier Ferdinando Bonora, che apporta numerosi miglioramenti all’edificio e alla sua morte (1917) la lascia in eredità alla figlia Zaida. In seguito, la casa passa in mano a diversi speculatori che ne mettono a repentaglio la conservazione, utilizzando la doppia loggia d’ingresso, disegnata a forma di ‘T’ secondo la tradizionale tipologia bolognese, come rimessa per carri da trasporto che vengono fatti entrare per una rampa posticcia. Quindi, nel 1928 viene acquistata dalla signora Clara Mazzetti (da cui la probabile origine del nome Villa Clara), che fa arredare le sale del pian terreno. E nel 1954, finalmente, viene acquistata dal padre dell’ingegner Alessandro Alessandri. Quest’ultimo, uomo profondamente religioso e tormentato dai sensi di colpa per un amore di gioventù osteggiato dalla famiglia, alla morte del genitore eredita un cospicuo patrimonio (127 immobili), di cui però si cura ben poco nel corso della vita. Cominciano così gli anni del declino della palazzina, complicati dalla fama di ‘villa maledetta’. Fino all’ultimo colpo di scena. Nel 2004, alla morte dell’ingegnere, la casa viene ereditata dalla signora Maria Vittoria Bossi, che scopre solo all’apertura del testamento di essere la figlia di Alessandri e di quel suo perduto amore. Sarà lei a salvare Villa Malvasia.”

La leggenda è giunta a conclusione: ora, ai curiosi, non resta che attendere il restauro e la futura apertura al pubblico della Villa, per poterla finalmente ammirare, senza paura di compiere reati… Almeno che non vogliano scappare senza pagare il conto! 🙂

Francesco Brandoli

Casino trebbo