Abraham Merrit – Il vascello di Ishtar – Recensione
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Finalmente ripubblicato, dopo molti anni di assenza dagli scaffali delle librerie italiane, il romanzo “Il vascello di Ishtar”, di Abraham Merrit, per l’editore Il Palindromo, nella meritevole collana I tre sedili deserti: note e traduzione di Giuseppe Aguanno, introduzione di Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco, con un saggio di Andrea Scarabelli e illustrazioni di Virgil Finlay.
Specifiche: gennaio 2018, pagg. 472, 15x19cm, bross. b/n, prezzo 26€ – ISBN: 978-88-98447-32-9

La trama, dal sito dell’editore: «John Kenton, appena tornato a New York dall’esperienza devastante della Prima guerra mondiale, riceve uno strano oggetto rinvenuto durante una campagna di scavi in Medio Oriente: un blocco di pietra al cui interno è custodito un piccolo vascello di gemme intagliate. Kenton non lo sa ancora, ma il manufatto è uno stargate, la soglia per un’altra dimensione, un mondo dove il suo coraggio dovrà scontrarsi con l’acciaio delle spade e la potenza di ancestrali divinità in lotta, e in cui ritroverà la voglia di vivere sperimentando la passione di un amore fuori dal tempo. Questo volume contiene la prima versione de Il vascello di Ishtar, pubblicata originariamente nel 1924 e inedita in Italia. Il romanzo è accompagnato dalle illustrazioni originali dell’epoca e da un ricco corredo di apparati critici. Abraham Merritt (1884-1943), maestro del fantastico e noto giornalista, è tra i pionieri e più apprezzati autori di letteratura fantasy. Stimato da H.P. Lovecraft e Clark Ashton Smith, tra le sue opere si ricordano: Il pozzo della luna (1919) e Gli abitatori del miraggio (1932).»

La storia fu originariamente serializzata sulla rivista americana Argosy All-stories, tra il novembre e il dicembre del 1924, in 6 episodi ed ebbe un grandissimo successo, al punto da essere votata come una delle storie più apprezzate dal pubblico ed essere eletta dai lettori nel 1938 come migliore storia della rivista, scalzando il ciclo di Tarzan di Burroughs (come peraltro ben chiarito nell’ottima nota biografica su Merrit in appendice al presente volume e opera della brava Maria Ceraso). Merrit fu un autore molto noto e apprezzato della sua epoca (addirittura una rivista fu battezzata in suo onore: A.Merrit’s fantasy magazine) e seppe ispirare molti grandi Autori (persino il ciclo di Cthulhu di Lovecraft potrebbe avere ricevuto suggestioni da The Moon Pool del 1918 di Merritt).

Ho voluto così introdurre l’Autore, perché ritengo che questo volume sia un tassello fondamentale di un percorso di narrativa fantastica in cui il carisma del suo creatore sicuramente ha influito positivamente. Sarebbe difficile e forse superiore alle mie competenze risalire alla prima opera fantastica in cui via sia un passaggio  tra i mondi, elemento già presente in Virgilio o Dante se circoscritto ai regni ctoni infernali, ma tema sicuramente di grande moda all’inizio del 1900: Il vascello di Ishtar mi ha ricordato alcune atmosfere de “La terra dell’eterna notte” di Hodgson e, per tornare a Burroughs, ha alcune assonanze con il ciclo di Carter di Marte o, persino, per impostazione della trama e intreccio dei personaggi e delle scene, con i fumetti di Flash Gordon.

Kenton, protagonista di questo romanzo, tramite il simulacro del vascello riesce di fatto a trasferirsi in un’altra epoca, quasi un altro mondo, dove persino lo scorrere del tempo è differente: qui recupera un ruolo eroico che nel nostro mondo non aveva. Inizialmente la scena è collocata sul vascello, diviso e separato tra il Prete Nero, Klaneth, tramite e celebrante del Dio della Morte Nergal, rappresentante delle tenebre, e le adoratrici di Ishatar (dea dell’Amore), tra cui la splendida sacerdotessa e tramite Sharane, di cui il protagonista si innamorerà. Kenton, passerà da schiavo a capo di una rivolta che prenderà il controllo della nave, con il passaggio di alcuni personaggi (Jiji e Zubran), inizialmente nemici, tra le file dei buoni, oltre all’amicizia con un altro schiavo (il vichingo Sigurd), tutti grandi comprimari della storia.

La religione e la mitologia sono elementi vivi e vivificanti del romanzo, che spazia dai miti mesopotamici a quelli nordici, creando un interessante intreccio, in cui il ruolo degli dei si affianca a quello dei personaggi, un po’ come nell’epica Omerica o, venendo ad Autori più recenti, nei cicli di Elric e Corum di Moorcock.

Dovremo aspettare gli anni ’70 per recuperare mondi divisi tra più piani (e divinità), come appunto in Moorcock o Zelazny fino al più recente Stephen King della torre nera, ma trovo che raramente – nemmeno tra alcune pagine di quest’ultimo ciclo del maestro dello horror contemporaneo, a tratti veramente immaginifiche – troveremo una più efficace e compiuta descrizione dei mondi paralleli come quella presente in questo romanzo e che vale la pena citare: «Di fronte aveva una vasta nebbia: vapori globulari argen­tei discendevano su di lui; il ventre curvo di un altro mondo. Quel mondo si stava scontrando col suo? No! Vi si stava sovrapponendo! La consapevolezza giunse subitanea e fugace: in quella minima frazione di tempo gli si manifestò come un’illuminan­te intuizione, sola chiave verso l’inesplicabile. Grazie ai lumi di questa rivelazione, Kenton vide la pro­pria Terra non per quello che sembra, ma per ciò che è: una vibrazione eterica negli intervalli tra le pulsazioni elettroniche di mondi su mondi che si intersecano, mondi originati dalla forza primigenia di cui queste vibrazioni sono espressione, nelle forme a noi note e in quelle che ignoriamo. Si figurò questi mondi e il proprio come un ammasso di elettroni: in verità ognuno di essi era piuttosto lontano dai propri simili, così come i pianeti, ben distanti l’uno dall’altro e dal sole. Attraverso gli abissi dello spazio, tra queste particelle, vide miriadi di congerie affini suddivise in globi nascosti e invisibili: ciascuno orbitava roteando senza inter­ferire con gli altri, eppure questi si incontravano, si compe­netravano, intrecciandosi. Mondi che si incrociavano secondo frequenze differenti, più alte o più basse, nella totale inconsapevolezza di queste tangenze. Mondi che si muovevano attorno e attraverso di noi, che si trovavano a coincidere in modo casuale, come segnali radio intercettati da un apparecchio non sintonizzato. Mondi sovrapposti come flussi di informazioni che, senza interferire l’uno con l’altro, scorrevano insieme sullo stesso cavo, grazie alla diversità delle vibrazioni. Il vascello di Ishtar navigava su uno di questi mondi paralleli. Il gioiello di gemme non era l’imbarcazione stessa, bensì una chiave capace di aprire un passaggio dalla dimensione d­i Kenton verso quella del vascello: un dispositivo che adattava le vibrazioni materiche del suo corpo a quelle del mondo della nave

Dopo la parte di trama sul vascello, e prima della conclusione – affatto scontata – della storia nella medesima sede, ecco che un’altra parte del romanzo si sposta sull’Isola di Emakhtila, dove accanto a nuovi personaggi, abbiamo alcune delle parti più evocative dell’opera, con toni aulici tali da ricordare quasi antichi poemi o testi sacri: come accennavo, il ruolo della mitologia è fondamentale in quest’opera, senza diventare pesante. Se ne ricava la profonda, davvero magistrale conoscenza di Merrit per la materia, che l’Autore tratta con completezza, rendendo appunto mito e divinità essenziali alla storia e alla trama stessa, in un modo che forse segna davvero il passaggio epocale del fantasy, per cui mi spingo a definire questo volume un tassello fondamentale del genere. Dopo Merrit, ci vorrà molto tempo prima che gli dei tornino a essere talmente rilevanti nell’immaginario, o perché partoriti direttamente da un mitopoieta dello spessore di Tolkien, oppure perché giovani autori, a partire da Zelazny appunto fino a un Gaiman odierno, sappiano recuperare il fascino che un intreccio tra vera mitologia antica e fantastico contemporaneo possano portare: ciò che oggi ha dato vita al genere urban fantasy, in nucleo già anticipato anche dal capolavoro Malpertuis di Jean Ray.

La storia è ben realizzata, alternando scene più poetiche e visionarie a numerosi duelli e battaglie, persino navali, caratterizzate da grande ingenio e descrizioni a tratti quasi macabre e gore.

Non posso che consigliarne la lettura agli amanti del fantasy e dell’epica, con il lieve avvertimento di prepararsi a un testo dallo stile ovviamente di inizio ‘900, che però non dovrebbe appunto stonare ai veri lettori del genere, che appunto avranno sicuramente dimestichezza con i capisaldi, tutti circa di questo periodo.

Una nota finale sull’edizione: di grande qualità, raccoglie le splendide illustrazioni di Finlay (vero maestro dei pulp anni ’30), e fornisce anche i vari apparati critici già menzionati. Ottimo il glossario dei termini mitologici, utile a una migliore comprensione del testo, e liminale l’introduzione di spessore di due Maestri come De Turris e Fusco. Ma soprattutto voglio plaudere all’ennesimo contributo di Andrea Scarabelli che, nonostante la giovane età, oggi si presenta sul panorama letterario italiano come forse il solo e più sapiente dei saggisti ESOTERICI, nel senso più aulico e accademico del termine. Nel suo mysterium coniunctionis riesce a recuperare il valore magico delle parole, per passare a trattare di narrativa fantastica fino a spingersi a spiegare (con citazioni di Autori di ambito filosofico e antropologico, assai più sapienziale del “banale” genere fantastico) temi come l’eterotopia, la ierogamia e la teogamia, facendoci riflettere sul vero significato del fantasy che, non a caso, viene chiamato in altri Paesi come Speculative fiction. Perché cos’è il fantastico se non il modo moderno di rappresentare miti Platonici, idee e archetipi, antichi come il tempo e l’inconscio umano?

Sabrina Lardini – Sleeping Sun – Il canto di Mana: libro 1 – Recensione
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Dalla quarta di copertina:

Noriko non è una qualunque sedicenne americana: è una ribelle dall’animo sensibile, in cerca di emozioni che soltanto la natura, custode di antichi misteri, è in grado di donarle. È nella campagna della Napa Valley, in California, che il suo spirito romantico si sveglia, e sono i vigneti dell’azienda agricola di famiglia che custodiscono i suoi ricordi più preziosi legati al padre, scomparso prematuramente. Un pomeriggio la giovane, colta da un improvviso acquazzone, si rifugia in una casa abbandonata dove incontra la misteriosa Mana, sfuggente e ritrosa come un gatto selvatico. Il destino fa sì che le due siano compagne nel nuovo anno scolastico al liceo di Saint Helena, ma ciò non impedisce che tra le due si instauri una feroce rivalità: Noriko, esuberante, spavalda e istintiva, si scontra con la determinazione e la freddezza della seconda, ma presto scoprirà quanto la presenza di Mana sia provvidenziale alla sua vita problematica, tra professori violenti, liti in famiglia e amori non corrisposti.
Vivendo i piccoli e i grandi drammi della gioventù, Noriko varcherà la soglia di un mondo che si cela nell’ombra e verrà a conoscenza di una guerra segreta nella quale lei e Mana hanno un ruolo fondamentale.
Sleeping sun è il grido di un sole ardente di pace e giustizia, la promessa di un nuovo ordine in un mondo dispotico, un sentimento ruggente di amore e libertà.

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Sleeping Sun è il primo libro (edito da EKT Edikit) per il ciclo de “Il canto di Mana”, di una giovane autrice esordiente lombarda, Sabrina Lardini (classe 1991).

Si tratta di un fantasy atipico, che potremmo inserire nel filone oggi molto in voga c.d. Urban fantasy e Young adult: storie in cui i protagonisti sono giovani che affrontano i problemi della quotidianità e dell’adolescenza, ma in un contesto in cui il nostro mondo contemporaneo si impregna di elementi magici e fantastici che descrivono un’altra realtà possibile, fatta di mito e magia, appena accanto alla nostra, nascosta solo da un labile velo.

Il libro, infatti, per una dose importante, potrebbe essere un classico romanzo di formazione, leggibile come tale anche da chi non ami il genere fantastico: incontriamo Noriko e assieme a lei scopriamo i drammi della sua infanzia, il difficile rapporto con la madre e il nonno, l’affetto per il fratellino, ma anche le difficoltà di una vita scolastica costellata di bullismo e rare amicizie, di amori non ricambiati, di professori e figure adulte talvolta al margine con la violenza o l’illegalità.

Partecipiamo al difficile triangolo amoroso che coinvolge Noriko e i suoi migliori amici, Grey e Nina, ma viviamo anche un altro complesso rapporto d’affetto verso Shiroi, esempio del classico ragazzo più grande, affermato, che tanto affascina figure più giovanili e ancora legate al mondo scolastico.

Soprattutto, scopriamo il misterioso ruolo di Mana, nuova studentessa appena arrivata a scuola, all’inizio acerrima rivale di Noriko, che poi diventa sempre più essenziale nella vita della ragazza, stravolgendola e portandola gradualmente alla comprensione di un mondo più vasto.

Un mondo in cui c’è posto anche per un’antica Dea, Hakidonmuya, l’origine di tutta la magia, le cui discendenti camminano ancora sulla terra: veniamo a conoscenza dell’antico popolo delle fate, di un complotto che ha sancito la fine del loro regno, fino a un’ intestina lotta secolare che vede sterminare tra loro famiglie appartenenti alla stessa società magica.

Accanto a sciamani capaci di tramutarsi in animali, e ai Pendolum, capaci di alterare il tempo, o agli Ubiquum, capaci di alterare lo spazio, ed ancora altre tipologie di famiglie dotate di diversi poteri magici, ci sono però i Cacciatori: esseri magici che ripudiano la loro natura e vogliono anzi annientare le fate per poi imporre il loro dominio sul mondo degli umani.

All’oscuro di tutto, infine, ci sono gli Ibridi: esseri a metà tra le fate e gli umani, confusi tra i mortali e ignari della loro vera natura e del loro ruolo nel conflitto. Dei “sonnambuli”, pronti a svegliarsi come il “sole” del titolo.

Chi tra i personaggi della storia si rivelerà un Ibrido? Chi una fata o un mago? Qual è il ruolo di Kachina, la discendente diretta di Hakidonmuya, in questa storia e con quale Ibrido inconsapevole cerca di entrare in contatto, alla ricerca di un Barrier, il più raro tra gli esseri fatati, capace di annullare il potere dei Cacciatori e rendersi introvabile?

Molte di queste domande restano aperte, in un volume che volutamente invita a quello che sarà il proseguimento della storia, iniziando con il farci conoscere bene i personaggi e le loro storie e personalità, in una vicenda che spazia tra varie situazioni, miscelando sfumature prettamente americane con altre dal sapore orientale e persino con saltuari riferimenti ai manga (questo libro avrebbe tutti gli elementi per essere tramutato in un ottimo Shojo delle Clamp).

Resta da fare un commento tecnico: è evidente che questo tipo di storia e trama (e ambientazione) può piacere o non piacere e forse offre spunti più per lettrici, data anche la sensibilità dell’Autrice. Eppure, bisogna complimentarsi con la Lardini per lo stile: è raro trovare un Autore esordiente che scriva così bene – soprattutto considerando la lunghezza del testo di oltre 400 pagine! – in una trama in cui sono rari i cali di tensione e francamente scusabili anche i pochi passi che possano mostrare uno stile ancora in formazione (qualche dialogo magari più ingenuo o qualche termine meno scorrevole o desueto).

In definitiva si tratta di un buon libro, che mostra l’esistenza anche in Italia di Autrici del fantastico che nulla hanno da invidiare alle anglofone Meyer o Rice, tanto per citarne due…

Un libro di cui consiglio la lettura, soprattutto al pubblico femminile che ama le love-story intrise di mistero e magia e personaggi oltre l’umano, ma su di un palcoscenico molto abitudinario, come potrebbe essere una nostra città o anzi un piccolo paese di provincia.

Un libro che, però, lascia la voglia di continuare la storia… Facendo attendere il secondo volume de “Il canto di Mana”!

Disponibile sia in cartaceo, al prezzo di 15,00 euro, che in ebook al prezzo di soli € 2,99!

L’Autrice:

Sabrina Lardini

Sabrina Lardini nasce a Voghera nel 1991. Laureata in Lingue e Culture moderne all’Università di Pavia, attualmente lavora per il secondo libro della saga Il canto di Mana, di cui Sleeping sun è il primo capitolo. Fra i suoi interessi rientrano la lettura dei grandi classici, dei romanzi di avventura, horror e fantasy.
Sleeping Sun è il suo primo romanzo.

http://www.ektglobe.com/prodotto/sleeping-sun/

Valerio Evangelisti – Eymerich risorge – Recensione
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Da pochi mesi è uscito un nuovo capitolo della saga dedicata all’Inquisitore Nicolas Eymerich, dello scrittore bolognese Valerio Evangelisti (Ed. Mondadori). L’Autore sembrava aver concluso la saga del suo primo e più celebre personaggio qualche anno fa, con il libro Rex tremendae maiestatis, ma – dopo alcuni anni dedicati a coltivare altri cicli e opere – ecco che fortunatamente Evangelisti ha deciso di far “risorgere” il personaggio.

Personalmente considero il ciclo di Eymerich come un capolavoro imperdibile, l’opera fantastica più riuscita della contemporaneità (italiana e non) e l’Autore, Evangelisti, un genio al pari di maestri come Lovecraft. Il ciclo di Eymerich auspico sia destinato a segnare l’immaginario collettivo a lungo e questo nuovo libro lo conferma.

La scrittura è come sempre snella ma efficace: Evangelisti ha il dono di saper dosare parole e aggettivi e in poche righe delineare alla perfezione scenari e situazioni, come pochi scrittori sanno fare.

Accanto a Eymerich, in questa storia – vero e proprio revival del ciclo – recuperiamo i principali personaggi della saga, come Padre Corona, il notaio Berjavel, e il boia Gombau, oltre al prof. Frullifer (che segna alcune delle parti più comiche del volume). Sul lato fantascientifico, recuperiamo il personaggio di Lilith, proprio dove il precedente libro si era interrotto.

I rimandi ad altri episodi della saga e a personaggi di altre storie sono numerosi e quasi difficili da cogliere sempre, mentre la storia sviluppa la classica quest con indagini e “spionaggio” dal sapore inquisitorio che è la matrice classica delle storie di Eymerich, accanto a scene più horror e a fenomeni sovrannaturali, ai confini con gli ufo, che strizzano l’occhio al weird.

La sola critica che muovo è che verso la fine il testo appaia eccessivamente sbrigativo e leggermente confuso (v. sotto spoiler): viene spontaneo domandarsi se non sia una precisa scelta che presagisca futuri nuovi libri della saga che, personalmente, aspetterò con ardore.

Lettura comunque consigliatissima!

Link: http://www.librimondadori.it/libri/eymerich-risorge-valerio-evangelisti

Segue SPOILER:

SPOILER

Dal titolo era chiaro fin da subito che Eymerich sarebbe risorto, in tutti i sensi. Il libro è la resurrezione figurata del personaggio letterario, ma nel corso della storia il personaggio del protagonista inquisitore – come immaginabile e preannunciato, in piena logica con il sapore della storia – muore e risorge davvero. Proprio il passaggio tra morte e rissurrezione viene francamente gestito da Evangelisti con un salto, non chiaro nemmeno al protagonista della storia, che ancora meno risulta comprensibile al lettore, al punto da creare una difficoltà di comprensione della trama e bloccare la sospensione dell’incredulità. Insomma, proprio la resurrezione di Eymerich, che dà il titolo al libro, è la parte meno riuscita, più confusa e che solleva maggiori domande (non risposte) di tutta la trama. Un vero peccato!

Charles Stross – Equinoide – Recensione
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Quest’anno alla Italcon c’è stata la presentazione del libro Equinoide di Stross, premio Hugo 2014, sforzo congiunto di due editori tra i pilastri della narrativa fantastica italiana e cioè Elara e Delos Digital (a cui si deve l’edizione in ebook in particolare).

Stross è un autore britannico di fantascienza e horror, già edito in Italia (anche su Urania), con all’attivo la serie della “Lavanderia”, nome di un’agenzia segreta britannica che vigila su pericoli demoniaci o alieni e in particolare su orrori cosmici di matrice prettamente Lovecraftiana e in cui lavora il personaggio Bob Howard (forse omaggio al creatore di Conan il barbaro).

Equinoide è proprio una storia di questo ciclo, con il suddetto protagonista: un romanzo breve che però si può leggere serenamente anche senza aver letto altri episodi, proprio perché autonomo e slegato.

L’ambientazione è lovecraftiana: il solitario di Providence in persona è uno dei personaggi della storia, che scopriamo aver avuto un contatto – ancora giovanissimo – con un abominio antico.

La trama sviluppa una originalissima e anche affascinante interpretazione della reale natura di Shub-Niggurath, legando il suo mito alla figura degli unicorni, in una lettura molto meno fantastica e idilliaca di come normalmente queste creature sono descritte nel fantasy.

Il taglio della scrittura è molto moderno e pulp, a tratti comico o volgare, ma in definitiva è una storia con il suo fascino, anche se è necessario segnalare una componente erotica e pornografica molto forte, che sicuramente stride con lo stile di Lovecraft, ma su cui aumenta il tono ironico anche verso il celebre Maestro di Providence.

Del resto, Stross ha raccontato che l’idea per questa storia nasce da un incontro a una convention, dove un altro autore parlava con un editore dell’idea di sviluppare una antologia incentrata sul tema degli unicorni in chiave “Hentai” (un tipico genere pornografico giapponese caratterizzato anche da contaminazioni con parafilia): questa antologia non fu mai realizzata, ma Stross aveva un’idea pronta per una storia è quella idea è all’origine di questo breve romanzo…

Se l’accenno ha incuriosito voi come ha colpito me, provate a leggere questo testo, che però potrebbe deludere o meglio “scandalizzare” i lettori troppo puristi (e puritani).

Da evidenziare la splendida copertina, con illustrazione di Franco Brambilla.

https://www.amazon.it/Equinoide-Lavanderia-Robotica-Charles-Stross-ebook/dp/B071VWRJ6C

 

KING ARTHUR – RECENSIONE
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Mercoledì con cinema a 2 euro e uscita nelle sale di King Arthur: potevo non vederlo e farvi avere un commento? NO!

Siamo di fronte all’ennesimo film che reinventa il mito di Re Artù, di fatto con una storia che non c’entra quasi nulla con il mito originale, salvo prendere in prestito dei nomi e vagamente dei topoi narrativi (in primis la spada).

Il film, sicuramente un fantasy, è nondimeno il tipico film di Guy Ritchie, che ne mescola i suoi classici stili, con gag comiche, scenette ricche di flashback e uno stile da “gang da strada” abbastanza pulp e contemporaneo, tutti elementi che peraltro annullano totalmente la fedeltà storica del film.

Del resto, molti attori e personaggi sono neri o asiatici: elemento che sicuramente aumenta la contemporaneità e la “correttezza politica” del film, ma che maggiormente stride con una realtà storica in cui di certo queste etnie erano minoranze, sempre che ci fossero nella Bretagna dei primi secoli!

Il film inizia con alcune brevi frasi scritte che ci introducono nella trama: dopo circa 20 secondi, pertanto, riceviamo la dichiarazione ufficiale che il film è una VACCATA. Ritchie si è divertito a pisciare su Sherlock Holmes (peraltro con un paio di film molto piacevoli e che comunque centravano lo spirito di fondo del personaggio); ha pensato bene questa volta di procedere direttamente con carichi pesanti, scaricando chili di feci sul mito Arturiano.

Se si vuole buttare via subito qualsiasi pregiudizio o desiderio di fedeltà, allora è possibile procedere con il film, che peraltro è un fantasy piacevole e ben realizzato: scocciava tanto inventare una storia originale o non avrebbe attirato pubblico senza il nome altisonante o ancora si temeva che i riferimenti fossero troppo evidenti?

VISIVAMENTE il film è bellissimo. Bellissimi gli scenari e affascinanti i costumi, per quanto storicamente assurdi e molto simili a capi di alta sartoria contemporanea. Ottime anche le musiche, sempre eccellenti nei film di Ritchie.

Arthur è anche fin troppo spavaldo per i miei gusti: ridicolo il modo in cui cammina da vero gangster trascinando la spada con la punta a terra, in uno scoppiettio di scintille… Tanto è Excalibur, mica si rovina il filo, no?!

Comunque, ciò chiarito, per proseguire devo necessariamente fare una serie di minimi SPOILER perché altrimenti è impossibile parlare oltre di questo film.

Ripeto. Seguono possibili SPOILER.

Jude Law è Vortigern, per l’occasione diventato fratello di Uther Pendragon. Pratica la magia, su una torre che edifica per avere potere e su cui campeggiano spesso delle fiamme che richiamano molto l’occhio di Sauron del Signore degli Anelli (visivamente richiamato in molte, troppe, scene, anche con aquile e olif…ehm, elefanti giganti). Nella cantina allagata tiene la strega Ursula de La Sirenetta, progenie di Cthulhu, che gli da poteri magici capaci di trasformarlo in un clone del Death Dealer di Frazetta.

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Arthur estrae la spada dalla roccia e quindi diventa capace di combattere a velocità e forza supersoniche: quando impugna la spada, con un effetto molto simile a quando Frodo indossa l’anello nei film di Jackson, di fatto va a una velocità che manco Neo in Matrix gli starebbe dietro e può seccare 40 nemici in 30 secondi.

Arthur, a capo di una banda di malviventi in tipico stile Ritchie, che ricorda molto Robin Hood, si rifugia quindi con i pochi maghi rimasti (fra cui una Maga – Morgana? – che controlla animali, uccelli e serpenti, che pare uscita da Naruto) nella loro tana nella foresta di Sherwood (o in un posto molto simile), dove uno degli attori più noti de Il trono di spade (Dito Corto) impersona un alter ego proprio di Hood, visto che scaglia frecce a 175 m di distanza a occhio nudo, senza mancare un bersaglio.

In questa bella accozzaglia di roba rubata a casaccio da qualsiasi fantasy vi venga in mente, ecco che in pratica Arthur si pone a capo dei ribelli per sconfiggere Darth Vortigern… Il resto ve lo lascio immaginare e/o vedere al cinema.

Botte da orbi, mostri e duelli in pieno stile videogame… Un maestro di Arti marziali cinese che chiaramente allena Arthur fin da bambino, rendendolo meglio di Chuck Norris… Strizzata d’occhio finale che ci fa intravedere la tavola rotonda, promettendoci forse futuri seguiti di cui, francamente, non sentiamo troppo il bisogno (specie se avremo Merlino impersonato da Samuel Jackson, che allo stato mi pare lo scenario più probabile).

Insomma… Una porcata che però, tutto sommato, costituisce un film che si può gustare per due ore senza troppe pretese, ma che ci porta lontanissimi dal capolavoro che fu Excalibur di Boorman nel 1981. Consiglio di recuperare quella vecchia pellicola a chi ancora non la conosca e sfruttare così meglio quelle due ore di tempo.

Warcraft – L’inizio – Recensione
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Premetto immediatamente che non sono mai stato un giocatore di Warcraft e la mia conoscenza del videogioco è pressoché inesistente, pertanto il mio parere si dirige direttamente alla trama e al film che, in definitiva, ho trovato piacevole e carino, ma non esaltante né una pietra miliare.

La storia tratta di un’orda di orchi che abita un mondo al collasso e che, pertanto, guidati dal loro potente stregone, cercano di conquistare un altro mondo, passando attraverso un portale dimensionale (concettualmente simile al noto Stargate). La magia dello stregone si basa su una energia detta Vil che, di fondo, è l’energia vitale intrinseca di ogni essere vivente. Proprio perché il mondo degli orchi è al collasso, lo stregone non ha abbastanza potere per far passare tutta l’orda e porta con sé un primo esercito, per razziare e conquistare il mondo dei 7 regni (Westeros?) ove catturare viva la popolazione per estrarre altro Vil. Da qui parte un intreccio, che non svelo, che porta il regno degli uomini a fronteggiare l’invasione degli orchi, con l’aiuto del Guardiano (il mago posto a presidio della pace) e di un giovane apprendista, il tutto nel pressochè totale menefreghismo di nani ed elfi che se ne sbattono bellamente.

Il grosso della storia è un collage di cliché che, tutto sommato, raggiunge il suo scopo: offrire una storia fantasy godibile e di totale intrattenimento, che può piacere come annoiare a seconda dello spettatore. Sicuramente non offre nulla di eccelso o particolarmente laborioso o geniale, nonostante il meccanismo in sé sia ben strutturato, pur con palesi forzature o scemenze. Proprio verso la fine del film ci sono una o due scene che indubbiamente spezzano la monotonia e prevedibilità della trama (seppur di poco) e offrono anche qualche dialogo particolarmente seducente, il tutto sostanzialmente predisponendo l’arco narrativo per uno o più seguiti, immaginabili fin dal sottotitolo “l’inizio” dato al film.

Sicuramente l’impostazione video-ludica è fondante: sia a livello grafico che scenico, il film si presenta come un enorme videogioco (o fumetto o cartone). I personaggi sono stereotipati all’inverosimile, la personalità appena abbozzata o approfondita quel tanto che serve a dare un minimo di credibilità alla trama in quei cinque minuti in cui non ci sono duelli o esplosioni. Alcuni dettagli sono indubbiamente privi di senso e l’intera struttura narrativa (almeno per un profano del gioco, ma temo per chiunque) si presenta non immediatamente comprensibile, perché alcuni aspetti – per quanto minuti e banali – sono buttati in mezzo un po’ allo sbaraglio, sostanzialmente richiedendo allo spettatore di accettarli senza contestazioni o attendere lo sviluppo della trama per cercare di attribuirgli il giusto senso e ruolo e significato.

Concludo con una triplice osservazione per i puristi del fantasy:

  1. fin dai primi minuti c’è un inserimento di armi da fuoco, peraltro quasi assenti nel film complessivo, che mi risultano esserci nel videogioco, ma che sicuramente faranno storcere il naso a tutti i puristi del genere (e sinceramente potevano serenamente non essere inserite nel film visto che non aggiungono nulla e alterano vistosamente l’ambientazione);
  2. non chiedetemi i nomi dei personaggi, perchè non me ne resta in mente uno (sì, sono i soliti nomi astrusi da fantasy che la gente odia, ma che di solito io recepisco serenamente, ma non in questo in film);
  3. la magia è quella classica da videogioco. Un mago, in Warcraft, fa un sacco di belle cose piene di luci, colori, energia, barriere, esplosioni, etc… A me è sostanzialmente il tipo e concetto di magia che piace in un fantasy (sinceramente inserire dei maghi che poi alla fine siano poco più di anziani saggi o indovini lo trovo sempre molto sprecato). Però so perfettamente che non è l’archetipo di mago della impostazione classica del fantasy che, già con Tolkien o la Le Guin, di fondo non abusa mai di poteri ed effetti speciali.
J.R.R. Tolkien – La storia di Kullervo – Recensione
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Recentemente uscita da Bompiani l’edizione italiana de “La storia di Kullervo”, nuovo inedito Tolkieniano ispirato dal Kalevala: «Il Kalevala è un poema epico composto da Elias Lönnrot nella metà dell’Ottocento, sulla base di poemi e canti popolari della Finlandia. Lönnrot assemblò e ricostruì la memoria storica delle genti finniche attraverso la massa dei canti prodotti dalla loro poesia tradizionale, riunendone in una sola opera la cosmogonia iniziale e il ciclo eroico/mitologico. La storia di Kullervo è strutturata in runi (capitoli), dal 31 al 36 del Kalevala» (Fonte Wikipedia).

Il volume di Bompiani, di circa 272 pagine (€ 19,00), presenta principalmente il testo della storia di Kullervo nella versione riscritta da Tolkien, purtroppo parzialmente incompleta (il finale è riassunto in pochi appunti mai sviluppati). Il testo è seguito da note e commenti, da un saggio (in duplice versione) dello stesso Tolkien sul Kalevala e da un saggio conclusivo su Tolkien, il Kalevala e la storia di Kullervo della curatrice del libro, la studiosa Verlyn Flieger. I soli testi di Tolkien, in questa edizione, sono presentati anche in versione originale, con testo inglese a fronte. L’immagine di copertina è un disegno originale sempre di Tolkien.

kullervo

La sinossi del libro Bompiani delinea brevemente, ma efficacemente, la trama: «Kullervo figlio di Kalervo è forse il personaggio più oscuro e tragico di Tolkien. “L’infelice Kullervo”, come lo definisce Tolkien stesso, è uno sfortunato orfano dotato di poteri sovrumani e avviato a un tragico destino. Cresciuto nella casa dell’oscuro mago Untamo, che ha ucciso suo padre, rapito sua madre e che per tre volte ha cercato di ucciderlo quando era ancora un bambino, Kullervo non ha nulla al mondo se non l’amore della sorella gemella, Wanona, e la protezione di Musti, un cane nero dai poteri magici. Quando viene venduto come schiavo, il ragazzo giura di vendicarsi del mago. Tolkien scrisse che La Storia di Kullervo era il suo tentativo di creare una leggenda originale, oltre che un nodo importante nelle vicende della Prima Era: Kullervo infatti è antenato di Túrin Turambar, l’eroe tragico e incestuoso del Silmarillion. Con la sua potenza narrativa autonoma, La Storia di Kullervo è un tassello fondamentale nella struttura del mondo creato da Tolkien, e viene qui pubblicata per la prima volta con annotazioni, saggi e altri materiali sull’opera che ha ispirato l’autore, il Kalevala.»

Innanzitutto la storia, come già accaduto per Sigurd o Arthur, è l’esperimento incompiuto di un giovane Tolkien di riscrivere (tra il 1912 e il 1916) un testo epico che lo aveva molto colpito e influenzato: erano i primi tentativi del futuro creatore di Arda di cimentarsi con la scrittura di componimenti epici e magici. Sono molti gli influssi che avrebbe poi sviluppato nella sua poetica, a partire dai nomi, che mutano spesso nel corso del testo, dimostrano l’evoluzione di personaggi che nascono tratti dal poema originale per sviluppare proprie peculiarità, al punto da reclamare un nome nuovo e autonomo. Sono evidenti le radici che avrebbero poi portato ai nomi di personaggi e dei dello stesso Tolkien e, forse, alcuni accenni si ricollegano proprio alla prima creazione della lingua elfica Quenya (nel libro scritto Qenya – che non ho chiaro se sia un errore di Bompiani, perchè ho sempre visto scritto Quenya).

Ancora, centrale, è il tema [segue SPOILER!] dell’incesto frutto di errore dovuto a magia o maledizione, che porta al tragico suicidio dei personaggi: verso la conclusione dell’opera il protagonista si unisce alla sorella, senza sapere chi sia, come poi accadrà anche nella storia di Túrin (sia nella recente versione autonoma, sia in quella raccolta nel Silmarillion o nei volumi della History).

La storia dovrebbe precedere brevemente il sorgere vero e proprio dell’amore tra Tolkien e sua moglie Edith Bratt e, forse, questo elemento è ben visibile nell’amore tra Kullervo e sua sorella, che nasce sostanzialmente come una violenza: mi viene da ipotizzare che in questa fase della sua vita Tolkien fosse ancora acerbo, pronto a descrivere personaggi “malvagi” e privo di certi lirismi romantici che, invece, avrebbero poi caratterizzato i grandi amori delle sue trame (e il suo matrimonio).

Kullervo ha i tratti del “pastore di lupi” della mitologia nordica e la sua figura costituisce sostanzialmente un Ulfhedinn/Berserk, il guerriero invincibile e invasato da Odino, costituendo ancora un antesignano del Beorn de Lo Hobbit.

Indubbiamente è il libro più amaro tra quelli letti del Professore. Kullervo è un anti-eroe: un personaggio rozzo, malvagio, crudele, rabbioso; deforme e brutto persino nell’aspetto (con accenni quasi razzisti). Il male che scatena e compie, con le sue magie, alla fine [segue SPOILER!] finisce per annientare tutti i personaggi della storia, compreso il meraviglioso cane Musti/Mauri, fino al suicidio dello stesso Kullervo. Sono rari i personaggi così oscuri tra gli eroi di Tolkien e, anzi, Kullervo è il primo e unico ad apparire in una versione così pura, ma al contempo sempre in bilico tra l’essere il buono o il malvagio della storia…

La prova letteraria, invece, è molto valida: mai, forse, come in questo testo, Tolkien riscrive l’epica con una forma che richiama, nel sapore, l’epica stessa originale, senza tuttavia rendere il testo eccessivamente pesante (la lettura scorre godibile). La traduzione è buona, contando che il testo a fronte è spesso ricco di arcaismi e parole di derivazione finnica. Nel testo sono presenti elementi di magia (dal sapore persino orientale, come i peli del cane Musti), canzoni/preghiere, figure poetiche rurali (quasi delle kenningar moderne).

Il libro costituisce un nuovo interessante tassello del panorama di questo grande Autore e ne consiglio la lettura sia agli amanti di Tolkien che a quelli dell’epica in generale.

Una piccola nota: attenzione perché, nonostante il libro sia uscito a marzo 2016, immediatamente sono state diffuse due edizioni: prima e seconda ristampa, entrambe del marzo 2016, che circolano allegramente assieme, sparse tra librerie e stores on-line. Se siete collezionisti di prime edizioni, controllate bene la pagina dei crediti e diritti.

 

Excalibur – Breve storia della mitica spada di Re Artù
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Mitica spada di Re Artù, anche chiamata “Caliburn” o “Caliburno” o “Caledwlch”, forgiata sull’isola di Avalon. Erroneamente considerata la spada che Artù estrasse da un’incudine, posta sopra una roccia, e che mediante tale rituale lo avrebbe fatto incoronare e riconoscere quale monarca, è invece una spada che egli acquisì successivamente. Thomas Malory, infatti, nel suo “Storia di Re Artù e dei suoi cavalieri”, racconta di come Artù fu quasi sconfitto, durante un viaggio in compagnia di Merlino, da un forte cavaliere presso una fonte: il cavaliere era un certo Pellinor, che in seguito sarebbe entrato al servizio di Artù come cavaliere della Tavola Rotonda. Dopo essersi curato presso un eremita, Artù si accorse di essere rimasto senza una spada. Preoccupato per l’improvviso disarmo, fu rincuorato da Merlino, che gli disse: «Non importa, non lontano da qui ce n’è una che vi apparterrà, e io so come farvela avere.» Si recarono, pertanto, presso un Lago “vasto e ameno”, dal quale emergeva un braccio rivestito di sciamito bianco e sorreggente una magnifica spada. In quel luogo, ad Artù si avvicinò Lile, la Dama del Lago, reale proprietaria della spada sorretta dal braccio. Artù chiese la spada alla Dama, la quale rispose: «Se mi concederete un dono allorquando ve lo chiederò, sarà vostra.» Dunque Artù, salito su una barchetta, raggiunse il braccio rivestito di sciamito bianco, afferrò la spada, nel suo fodero, e la fece propria, mentre il braccio si inabissava. In seguito, il cavaliere Balin, detto il Selvaggio, nonché Cavaliere delle due spade, estrasse un’altra magica spada, poi appartenuta anche al prode Galahad, da un fodero da cui nessuno riusciva a estrarla, liberandone una gentildonna – messaggera di Dama Lile – che la portava al fianco con suo grande disagio. Questa seconda spada apparteneva, anch’essa, alla Dama del Lago, la quale si recò presso Artù chiedendo quel dono pattuito alla consegna di Excalibur: in particolare, chiedeva la testa di Balin, assassino del di lei fratello, o la testa della messaggera, assassina del di lei padre; o, ancora meglio, la testa di entrambi. Artù non voleva concedere simili doni, che gli avrebbero arrecato disonore, e chiese di poter rendere qualunque altro servigio in alternativa. Mentre ancora temporeggiava con Dama Lile, sopraggiunse Balin, che recise il capo della donna, accusandola di aver compiuto falsità e incantesimi che – tra i tanti misfatti – avevano condotto la madre del cavaliere al rogo. Artù, disonorato dalla condotta di Balin, lo scacciò dal regno e provvide a seppellire Dama Lile con tutti gli onori: tuttavia, ne seppellì il corpo decapitato, poiché la testa fu inviata da Balin ai propri amici in Northumberland, per dimostrare la compiuta vendetta in memoria della madre.

In punto di morte, Artù domandò a Sir Bedivere di gettare Excalibur in mare: Bedivere acconsentì e si allontanò con la spada. Per strada si mise ad osservare “la nobile arma e le pietre preziose che ricoprivano il pomo e l’elsa” e pensò che il gettarla via ne avrebbe fatto derivare solo perdite e danno. Pertanto, la nascose sotto un albero e tornò dal re, che gli chiese cosa avesse visto nel gettarla via. Bedivere rispose: «nient’altro che onde e venti.» Artù capì che Bedivere mentiva e, dopo averlo redarguito, gli domandò nuovamente di gettare la spada in mare. Tuttavia, nuovamente Bedivere nascose la spada e tornò da Artù dicendo di aver visto null’altro che “flutti e ondate nere”. Artù nuovamente si adirò e lo ingiuriò dandogli del fedifrago e traditore e gli ordinò di gettare la spada: infatti, il re era preoccupato dall’avvicinarsi della morte e minacciò di uccidere Bedivere, se non avesse adempiuto all’ordine. Finalmente Bedivere, spaventato dalle minacce, andò a recuperare la spada, là dove l’aveva nascosta, e si recò in riva al mare: “avvolse la cintura intorno all’elsa e la scagliò più lontano che poté. Allora vide un braccio e una mano sorgere dall’acqua, afferrarla stretta, brandirla tre volte e poi inabissarsi con l’arma.” Quando tornò da Artù, per la terza volta, gli disse cosa realmente avesse visto e questi, soddisfatto, si fece aiutare a raggiungere l’imbarcazione che lo avrebbe portato sull’isola di Avalon. In questa storia è possibile riconoscere un parallelo simbolico con le tre negazioni mosse da Pietro a Gesù nella narrazione della Passione.

Excalibur, il cui nome (sostiene sempre Malory, per quanto l’etimo sia incerto) significherebbe “Taglia Acciaio”, sarebbe stata, secondo la leggenda, pressoché invincibile. Eppure, il vero punto di forza di quest’arma era il rispettivo fodero: infatti, chiunque lo cingesse al fianco, per quanto venisse ferito, non avrebbe sanguinato e sarebbe stato quindi invincibile. Infatti, spada e fodero uniti costituirebbero, per le loro prodigiose caratteristiche, sia un invincibile attacco che un’ottima difesa.

Goffredo di Monmouth, nel suo “Historia regum britanniae”, l’opera più celebre sull’Artù storico, menziona la spada Excalibur accanto ad altri due strumenti marziali incredibili, sempre posseduti dal monarca: la lancia Ron e lo scudo Prydwen. La lancia è descritta come «lunga e larga, adatta a fare strage di nemici.» Su detto scudo, invece, sarebbe stata rappresentata l’immagine della Vergine Maria: in tal modo Artù aveva sempre presente nella mente la figura della Madre di Cristo.

Per quanto riguarda l’altra spada di Artù, quella generalmente confusa con Excalibur ed estratta da un’incudine sopra una roccia, si può brevemente osservare come sia un probabile riferimento ad istituti giuridici di origine sassone. Era, infatti, usanza diffusa presso i popoli germanici (che, vale la pena ricordare, nei primi cinque secoli d.C. furono spesso alleati o rivali dei britanni, andando a costituire con essi quel popolo anglo-sassone cui, appunto, si deve parzialmente riferire il ciclo Arturiano) che il figlio di un nobile andasse a combattere, come soldato, nell’esercito di un altro nobile, presso cui così compiva il proprio addestramento senza alcun favoritismo. Successivamente, quando il ragazzo raggiungeva l’età adulta, poteva tornare presso la famiglia d’origine e prendere finalmente posto in essa, magari sostituendo il padre al comando. A tale istituto si aggiunga il cerimoniale delle spade (descritto persino nel “Gesta dei re e degli eroi danesi” da Saxo Grammaticus), consistente nel dissotterramento della celebre e avita spada paterna: è una prova cui il pretendente al trono era tenuto a cimentarsi per dimostrare la propria legittimità, simboleggiante il raggiungimento dell’età adulta e della forza necessaria a combattere con la spada, sia in difesa della stirpe, sia per comandare il popolo. Nelle antiche saghe le armi sono generalmente sepolte nei tumuli: l’estrazione della spada paterna da un’incudine o roccia, in cui era stata conficcata in precedenza, ne è probabilmente una variante. È narrato, a proposito, di come Artù fu educato da mago Merlino e allevato non dal padre, Uther Pendagron, bensì da un altro nobile, Sir Ector (o Hector), e dalla di lui moglie, insieme al figlio di quest’ultimo, fratello di latte per Artù. Il ragazzo in questione aveva nome Kay (o Kaio o Cai o Cei), e altri non è che il celebre Sir Kay, il Siniscalco, altro cavaliere della tavola Rotonda. Morto Uther Pendragon e rimasto senza monarca il regno d’Inghilterra, su consiglio di Merlino, tutti i nobili e gentiluomini d’armi del regno furono convocati, sotto pena di scomunica, dall’Arcivescovo di Canterbury a Londra nel giorno di Natale. Infatti, come Gesù, quella notte, era nato per essere Re del mondo, così il Padre avrebbe concesso il miracolo di far sorgere, quella stessa notte, il Re d’Inghilterra: colui che avrebbe estratto la celebre spada incastonata nell’incudine. Queste sono le parole con cui è descritto il luogo da Malory: “Nel camposanto dietro l’altare maggiore fu vista una grande roccia quadrangolare, simile a un blocco di marmo, che sorreggeva nel mezzo una sorta d’incudine d’acciaio alta un piede in cui era infitta una bella spada. Intorno all’arma una scritta in lettere d’oro diceva – colui che estrarrà questa spada dalla roccia e dall’incudine è il legittimo re di tutta l’inghilterra.” Ebbene, si narra che Artù, ancora giovane, accompagnasse al torneo di Capodanno il patrigno Ector e il fratellastro Kay: quest’ultimo da poco investito cavaliere, nel giorno di Ognissanti. Essendo rimasto senza spada, Kay chiese ad Artù di tornare a prenderla all’alloggio paterno. Giunto in loco, Artù lo trovò serrato e deserto. Per non lasciare senza spada il fratellastro, si recò a estrarre “con uno strappo deciso, ma senza sforzo” la spada al camposanto, lasciato incustodito dai guardiani, recatisi con tutti gli altri alle giostre. Sir Kay capì subito di quale spada si trattasse e provò a investirsi monarca innanzi al padre Ector: ma subito rivelò essere stato Artù a estrarre la spada. La spada fu reinserita nell’incudine: sia Ector che Kay tentarono più volte d’estrarla e nella stessa impresa si cimentarono moltissimi baroni, nobili e cavalieri, più volte, a distanza di giorni o settimane, tanto nel giorno dell’Epifania, quanto a Candelora, a Pasqua e a Pentecoste; l’unico, tuttavia, che riuscì sempre e solo a estrarre la spada senza fatica, tutte le volte che vi provò, fu Artù, che fu pertanto incoronato re d’Inghilterra, per acclamazione del popolo, nel giorno di Pentecoste.

Così, con l’addestramento fuori dalla propria famiglia e l’estrazione della spada per diventare monarca, il mito di Artù si ricollega proprio ai simboli e agli istituti giuridici della realtà di quell’epoca. Uno di quegli infiniti scambi tra mito e realtà così diffusi e cari al ciclo Arturiano.

(Copyrights: Francesco Brandoli)